La Basilicata fra lo sviluppo mancato e la transizione necessaria
“Qualcuno ha scritto che l’ecologia senza lotta di classe è giardinaggio. In Basilicata oltre all’assenza storica di un modello di sviluppo e di una dimensione sociale della giustizia, è venuta meno anche l’idea di ecologismo stesso”
Risale ai primi decenni del 1900 il primo incontro dei lucani con il petrolio e l’idea che esso potesse diventare catalizzatore di sviluppo e progresso. Sviluppo e progresso tanto desiderati, oggi come allora, evidentemente mai arrivati, con buona pace della classe dirigente che ne ha gestito le trattative e le risorse. In quegli anni era Tramutola il luogo eletto ad “epicentro economico” regionale, dove i cittadini avevano una certa familiarità con un odore atipico diffuso da una sostanza nerastra che sgorgava naturalmente dal terreno e formava numerosi rigagnoli. L’11 maggio 1901 il consiglio comunale di Tramutola approvò la delibera “Voto al Governo del Re, perché sia inviato in questo Comune un Ingegnere delle Miniere con l’incarico di osservare la zona petrolifera esistente in questo territorio”.
Seguirono a tale delibera una serie di ispezioni, con le quali si giunse alla conclusione, tra la delusione degli abitanti del territorio, che investimenti per la coltivazione di idrocarburi in tale territorio non sarebbe stato economicamente vantaggioso per il territorio in quel contesto storico e amministrativo. La storia, però, non si fermò a quei primi incontri tra lucani e petrolio. Le attività che si svolgono oggi in Basilicata sono autorizzate da apposita concessione, denominata “concessione Val d’Agri”, rilasciata nel 1998 e poi ampliata nel 2005 con l’unificazione delle concessioni Grumento Nova e Volturino, con validità sino ad ottobre 2019, operante in stato di deroga fino al 30 aprile 2021, data del nuovo accordo preliminare che, da quello che si apprende, è in attesa di ratifica e, pertanto, si continua ad estrarre senza compensazioni ambientali. Le compensazioni verranno finanziate in misura retroattiva con il nuovo accordo. Ma fino ad allora chi tutela territorio e cittadini?
All’attuale assetto produttivo si è giunti dopo prolungate indagini esplorative e procedure autorizzative che ebbero avvio nel 1979, mezzo secolo dopo le illusorie speranze dei cittadini di Tramutola, e che sfociarono nelle prime operazioni di coltivazione dei primi anni novanta. Ripercorrendo la storia del rapporto tra popolo e petrolio, costante è la speranza di progresso e sviluppo che accompagna i sentimenti del popolo lucano quando le “torri di fuoco” arrivano sul territorio.
Progresso e sviluppo che spesso e volentieri ha fatto nel tempo il paio con altri slogan ripetuti a più riprese nel tempo da petrolieri e politicanti lucani e non: “royalties”, “sviluppo sostenibile”, “compensazione ambientale”, “possibilità di lavoro” e “saremo come la Norvegia”. A tirar le somme, dopo più di trent’anni dall’avvio dei primi impianti di coltivazioni, possiamo facilmente dire di non essere diventati come la Norvegia e che si fa sempre più difficile credere che ciò possa accadere. Partiamo dalla prima illusoria speranza che ha da sempre accompagnato la popolazione lucana, al netto di chi si è sempre opposto e continua a farlo a qualsiasi progetto di coltivazione di idrocarburi sul territorio, ovvero “progresso e sviluppo”. (continua nella pagina successiva)
Ci si attendeva che il petrolio avrebbe portato sviluppo industriale ed economico e progresso socio-culturale. Per chi vive il territorio sarebbe facile concludere che tutto ciò non si è visto, ma pur non volendo lasciarsi andare a sensazionalismi ed impressioni, i numeri, i dati e studi “peer reviewed” certificano il disattendimento di tali speranze. A regional resource curse? A synthetic-control approach to oil extraction in Basilicata, Italy, uno studio di L. Pellegrini, L. Tasciotti e A. Spartaco, sintetizza e “certifica” mediante analisi statistiche accurate di indicatori e confronto degli stessi con gli altri territori italiani le sensazioni che qualsiasi lucano avrebbe ripercorrendo la propria regione, nello spazio e nel tempo. L’analisi degli indicatori correlati al tema lavoro evidenziano quanto sia stato ininfluente l’arrivo sul territorio delle grandi multinazionali petrolifere sulla percentuale degli occupati lucani, smentendo la mistificazione secondo cui le coltivazioni idrocarburiche “avrebbero portato lavoro in Basilicata”. Ancora più deludente è l’effetto che “il petrolio” ha avuto sull’occupazione giovanile in Basilicata. Dall’analisi effettuata risulta che “il petrolio” abbia comportato una diminuzione della stessa di un ulteriore 1% rispetto a territori italiani dove “il petrolio” non c’è. Ininfluente risulta essere anche su quello che è il progresso socio-culturale. Risulta infatti che gli indicatori riguardanti il tenore di vita dei lucani ed il livello di scolarizzazione e formazione universitaria è esattamente in linea con altre realtà italiane in cui “il petrolio” non c’è.
Il tema occupazione è un tema che affligge il territorio lucano, rappresentando il fattore chiave che incide sulla significativa migrazione, soprattutto di giovani, privati della possibilità del diritto di scegliere se rimanere “a casa propria” e realizzarsi sul proprio territorio. I dati ISTAT dimostrano quanto la situazione sia preoccupante, lasciando poco spazio alla soggettività. I dati dimostrano come la regione Basilicata sia tra le regioni con i più alti tassi di disoccupazione giovanile, in particolare per le fasce d’età che normalmente vanno nel post-diploma e post-laurea. Il tasso di disoccupazione si attesta infatti a valori pari a 30 e 17.9 rispettivamente, che sono praticamente dimezzati per le regioni del nord. Solo regioni come Campania, Calabria e Sicilia hanno tassi di disoccupazione più alti della regione Basilicata. I dati ovviamente non tengono conto del lavoro in nero, altra piaga sociale.
Se questi dati mostrano già una tendenza preoccupante, ancora più preoccupante è la serie di dati che mostra la disoccupazione suddivisa sulla base del titolo di studio posseduto. I dati dimostrano in questo caso un dato ancora più allarmante per la regione Basilicata: la forza lavoro con maggiore tasso di disoccupazione (rispetto al territorio nazionale) e che quindi più difficilmente trova occupazione è quella con titolo di studio alto (laurea/post laurea), con un tasso di disoccupazione che si attesta al 10,7% (solo la Calabria fa peggio). Valore che nelle regioni del nord è mediamente intorno al 3%. Da notare è che la Basilicata ha tassi di disoccupazione fino al diploma comparabili con le regioni più sviluppate d’Italia ma nettamente maggiore se si considera invece forza lavoro laureata e post-laurea. Inoltre, Il tasso di disoccupazione per questa forza lavoro si attesta allo stesso valore del 1992 (negli anni recenti era addirittura superiore), dimostrando quindi che il progresso della regione, in ambito industriale tecnologico e culturale è fermo al 1992, incapace di rispondere alla maggiore presenza di forza lavoro qualificata. Considerando invece la forza lavoro con nessuna licenza, elementare o media, la regione Basilicata è tra quelle che più riesce ad offrire opportunità a tale forza lavoro. È evidente quindi come la Basilicata non offra un mercato del lavoro che richiede personale altamente qualificato, determinando quindi un tasso di emigrazione alto, soprattutto per chi ha titoli di studio. Alla luce di tutto ciò, è davvero difficile affermare che “il petrolio” in Basilicata abbia contribuito allo sviluppo tecnologico, della qualità delle offerte di lavoro e del valore aggiunto del sistema produttivo locale. Il rilancio occupazionale può passare attraverso l’innovazione tecnologica del settore “green” ed è fondamentale investire nella formazione di giovani, universitari e non, nei settori tecnologici ad alto valore aggiunto dello sviluppo sostenibile. L’estrazione petrolifera è una attività a basso valore aggiunto che non può tamponare in alcun modo l’emergenza demografica e la crisi occupazionale. Le stime di occupati diretti tra gli impianti di Tempa Rossa e Val d’Agri sono solamente 520, circa lo 0,6% (si pensi, per confronto, che Stellantis a Melfi impiega in maniera diretta circa 7200 persone).
Con il parere positivo e la sostanziale promozione della Commissione Europea sul PNRR, si apre una fase nuova ed una stagione politica decisiva per l’Italia. Il Recovery Plan è stato scritto e progettato seguendo le linee guida dell’Unione Europea che ha posto i temi della sostenibilità, della transizione ecologica ed energetica e della digitalizzazione. La seconda missione del Next Generetion EU ha come orizzonte una vera a propria “Rivoluzione Verde”. (continua nella pagina seuccessiva)
Mentre tutto questo accade, a proposito di generazioni che verranno, la Regione Basilicata ha siglato – con oltre 18 mesi di ritardo – l’accordo preliminare con Eni e Shell sulle concessioni dei giacimenti petroliferi in Val d’Agri, valido per i prossimi dieci anni e retroattivo a partire dal 2019. Per intenderci, fino al 2029 gli accordi saranno vincolanti. Fino ad un anno prima dal 2030 che per le Nazioni Unite rappresenta l’anno entro il quale perseguire gli obiettivi di sviluppo sostenibile.
L’Italia, infatti, è uno dei Paesi ad aver aderito agli obiettivi dell’Agenda ONU 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. Fra i 17 obiettivi, quello che più di tutti avrebbe dovuto facilitare una riflessione pubblica ed un indirizzo politico è l’Obiettivo 7 che nei “Traguardi” al punto 7.2 e 7A indica chiaramente: “Aumentare considerevolmente entro il 2030 la quota di energie rinnovabili nel consumo totale di energia” e “Accrescere entro il 2030 la cooperazione internazionale per facilitare l’accesso alla ricerca e alle tecnologie legate all’energia pulita – comprese le risorse rinnovabili, l’efficienza energetica e le tecnologie di combustibili fossili più avanzate e pulite – e promuovere gli investimenti nelle infrastrutture energetiche e nelle tecnologie dell’energia pulita”.
Eni, dal canto suo, dopo la condanna in primo grado del marzo 2021 per traffico illecito di rifiuti prodotti dal Centro Oli Val d’Agri (COVA), punta ad un processo di decarbonizzazione al 2030 e al 2050 virando sul gas (che è un combustibile fossile) e sul confinamento geologico della CO2. Pertanto, alla luce dell’accordo stretto con la Regione Basilicata ed analizzando il trend del mercato petrolifero e dell’intensità di produzione che AIE e OCSE auspicano, l’azienda è ben lontana dalla svolta green di cui parla.
Eccola, al netto dei numeri che ora analizzeremo, la grande contraddizione politica, economica e sociale che si annida dietro questo accordo preliminare: arrivare nel 2029, a un anno dal 2030, senza nessuna strategia di transizione energetica ed ecologica, senza nessun progetto di riconversione economica e sociale del territorio, senza alcun confronto pubblico o privato con le organizzazioni rappresentative, le parti sociali, le associazioni, le scuole, l’Università di Basilicata che sarebbe dovuta essere coinvolta in una strategia ampia di innovazione finanziando, ad esempio, borse di ricerca sui temi della transizione, sul tema dell’idrogeno che viene usato spesso ma con poca struttura scientifica. Sarebbe utile che questo governo regionale rendesse nota la propria idea su come coinvolgere la Fondazione Eni Enrico Mattei (FEEM) che in Basilicata ci opera.
La crisi sanitaria e quella climatica sono strettamente collegate e ci impongono scelte risolute. Continuare a perseguire lo sfruttamento del fossile per produrre energia è una strategia che non guarda lontano. Quale situazione vivremo fra 100 anni? La Basilicata deve pensare ad altri modelli di sviluppo e ribaltare lo scenario con investimenti rivolti alla diversificazione economica, alla sostenibilità ambientale e all’economia circolare. Tutto questo senza cedere ad operazioni di greenwashing, come spiega benissimo Legambiente Basilicata: si pensi al progetto Energy Valley di Eni che altro non è che un investimento che guarda a specifici interventi quasi tutti funzionali all’attività del centro Oli Eni. Cicero pro domo sua. Occorre un programma concreto di riconversione produttiva incentrata sulle rinnovabili, sulla bioeconomia e impegni concreti che vengano assunti dalla Regione Basilicata con il coinvolgimento di tutti gli stakeholder territoriali.
In Olanda una sentenza del Tribunale dell’Aja del 26 maggio 2021 ha condannato Shell a ridurre del 45% le emissioni di CO2 entro il 2030, rispetto ai livelli del 2019. A portare la multinazionale in tribunale sono stati 17mila cittadini olandesi costituitisi parte civile e l’ONG Milieudefensie. La sentenza ha imposto all’azienda di allinearsi all’accordo sul clima di Parigi ed all’Agenda ONU 2030. In Basilicata in pochi hanno sollevato la questione, che sarebbe da ascrivere più alle responsabilità politiche che a quelle commerciali di Eni, Total e Shell, visto il tipo di accordo preliminare decennale che i rappresentanti del popolo lucano hanno firmato con estrema leggerezza e senza alcun confronto pubblico.
L’accordo prevede contributi fissi per 190 milioni di euro su dieci anni destinati al finanziamento di progetti di sviluppo. Di questi fondi, 100 milioni saranno banditi dalla Regione, e i restanti saranno allocati direttamente da Eni e Shell. La parte variabile prevede un contributo di 1,05 euro per barile prodotto, qualora il prezzo medio annuo sia almeno pari a 45 dollari al barile. Nell’ipotesi che il prezzo sia sempre superiore a questa soglia e che la produzione sia sempre pari alla capacità massima nel periodo 2021-29, il contributo ammonterebbe a circa 346 milioni di euro. Qualora il prezzo scenda sotto la soglia, il contributo sarà inferiore. Una formula che garantisce un contributo per barile superiore a quello per le produzioni di Tempa Rossa quando il prezzo del petrolio è minore di 62 euro circa, ma inferiore quando è più alto. Infine l’accordo prevede una fornitura gratuita di gas, pari a 160 milioni di metri cubi all’anno, il cui valore ammonterebbe nel 2020 a circa 19 milioni di euro. (continua nella pagina successiva)
Dal Report di Banca D’Italia sull’economia della Basilicata uscito il 23 giugno 2021, emerge come il valore della produzione è calato nel 2020 a causa della forte contrazione dei corsi petroliferi innescata dalla crisi pandemica e riassorbita solo a inizio 2021 mentre, in termini di quantità estratte, la produzione di petrolio greggio è invece aumentata del 36,5 per cento circa rispetto all’anno precedente. Nei primi quattro mesi del 2021, la produzione ha continuato a crescere ulteriormente. Tutto questo a fronte di un dato specifico che lascia perplessi: le royalties sono diminuite nel 2020 del 10,1 per cento, portandosi a circa 110 milioni di euro. A causa degli andamenti del mercato, le royalties dovrebbero registrare un’ulteriore diminuzione a circa 97 milioni di euro nel 2021 secondo Banca D’Italia. A questo si aggiungono i bassi livelli di compensazione ambientale risalenti all’accordo Tempa Rossa del febbraio 2020 stretto con Total, Shell e Mitsui, titolari della concessione “Gorgoglione”, in base al quale le compagnie si impegnavano a erogare alcuni contributi all’ente regionale ed a effettuare investimenti sul territorio. Questi trasferimenti, che sono aggiuntivi rispetto alle royalties, possono essere suddivisi in una parte variabile, il cui valore dipende dalla quantità prodotta e dal prezzo, e in una parte fissa. La parte fissa ammonta a circa 340 milioni di euro, distribuiti su venticinque anni (in media circa 14 milioni all’anno, pari allo 0,09 per cento del PIL regionale) ma che hanno prodotto poco o nulla: marciapiedi, strade e qualche evento pubblico. E le infrastrutture sociali?
Circa 33 milioni sono destinati ad una rete di monitoraggio ambientale e 7 milioni alla realizzazione di eventi e di attività promozionali. La parte restante sarà invece destinata a programmi di sviluppo: 175 milioni gestiti direttamente dalla Regione, e 125 per progetti identificati dalle compagnie.
La parte variabile, potenzialmente più consistente, prevede per ogni barile prodotto nei prossimi trent’anni un contributo di 50 centesimi di euro, indicizzato al prezzo del petrolio, e un altro di 30 centesimi, non soggetto ad aggiornamento. Il contributo per la produzione relativa al 2020 ammonterà così a circa 9,7 milioni di euro. Nell’ipotesi che il prezzo rimanga fisso ai livelli di fine 2020 (circa 51 dollari al barile) e che la produzione sia sempre pari alla capacità massima, il contributo ammonterebbe a circa 500 milioni di euro per i prossimi trent’anni (20 milioni di euro annui, pari allo 0,13 per cento del PIL regionale). Se il prezzo medio fosse invece il doppio di quello di fine 2020, il contributo ammonterebbe a circa 830 milioni di euro (33 all’anno, pari allo 0,22 per cento del PIL).
L’accordo prevede inoltre la fornitura gratuita di 40 milioni di metri cubi di metano all’anno per trent’anni, quantità che corrisponde a circa il 10 per cento del fabbisogno regionale. Valutato al prezzo medio del 2020, il valore della fornitura annuale ammonterebbe quasi 5 milioni di euro.
Il confronto pubblico e la trasparenza non sono mai stati un vezzo dell’amministrazione lucana. Dal 30 giugno 2021 sarebbe dovuto essere online, sul sito internet della Regione Basilicata, il dato aggiornato sull’utilizzo delle Royalties di Tempa Rossa. Ad oggi non è disponibile nessuna cifra, nessuna trasparenza.
Eppure, la sovranità popolare delle risorse è garantita persino dai trattati internazionali sui diritti umani, secondo cui “per realizzare i loro fini, tutti i popoli possono disporre liberamente delle proprie ricchezze e delle proprie risorse naturali”. Il popolo lucano dovrebbe quindi esercitare questa sovranità, autorizzando o meno lo sfruttamento delle risorse del nostro territorio e l’eventuale modalità di sfruttamento e gestione delle rendite. Autorizzazione che potrebbe anche essere concessa tacitamente se solo fossero soddisfatte delle condizioni minime: informazione completa ed accessibile, indipendenza, deliberazione e dissenso. Per fortuna possiamo ritenerci indipendenti e liberi di esprimere il nostro dissenso, ma quanto ad informazione e deliberazione non possiamo dire lo stesso. Particolarmente difficile è avere informazioni su come le nostre risorse vengono gestite e come i proventi vengono utilizzati. Dal sito di Eni è possibile leggere che la regione Basilicata tra il 1996 ed il 2019 ha ricevuto un importo pari a 1,98 miliardi di euro in royalties, nel 2020 57 milioni alla regione e 10 ai comuni interessati dai siti di estrazione.
Analizzando le tendenze demografiche più recenti, risultata del tutto evidente quanto gli effetti della spesa pubblica della royalties non sono riusciti a contrastare il fenomeno dello spopolamento e dell’emigrazione. Anche per chi segue con particolare attenzione le vicende politiche locali, è difficile avere piena contezza di come queste risorse sono state impiegate negli anni. Speriamo in una smentita, ma consultando il sito della stessa Regione è complicato ottenere con facilità ed immediatezza qualche informazione a riguardo. Eppure, i cittadini dovrebbero essere informati e messi a corrente di come vengono gestite le risorse, senza pretendere che tutti abbiano il tempo e la voglia di andare a cercare documenti tra mille scartoffie. Non tutti hanno il tempo o la voglia, di passare ore a cercare informazioni, dopo giornate intense passate a lavoro (per i fortunati che ne hanno uno), ad accudire i figli o trovare il modo per sopravvivere. (continua nella pagina successiva)
Giudicare così chi amministra le risorse su mandato popolare è davvero complicato e non si può certo scambiare la mitezza della maggior parte del popolo lucano per una forma di consenso tacito. Basta guardare all’unica occasione in cui il popolo lucano ha avuto modo di esprimersi su un tema così vicino ad autorizzare estrazioni petrolifere. Parliamo del referendum abrogativo del 2016 che chiedeva ai cittadini di esprimere la propria posizione sull’abrogazione della norma che ha consentito di prorogare le concessioni per l’estrazione degli idrocarburi sino all’esaurimento dei rispettivi giacimenti (in mare).
I cittadini lucani furono tra quelli che si presentarono alle elezioni in numero sufficiente per raggiungere il quorum ed il 96% di loro si esprimeva a favore dell’abrogazione di tale norma. Prima di rinnovare concessioni e siglare accordi con le multinazionali del petrolio, sarebbe forse opportuno tener conto della volontà della cittadinanza e dargli la possibilità di deliberare ed esprimere un giudizio dopo aver potuto osservare per trenta anni dove ci hanno portato le estrazioni e dove potranno portarci.
Continuare a siglare accordi che legano il futuro della Basilicata alla volatilità del prezzo del petrolio e alle oscillazioni del mercato finanziario è forse un azzardo che i lucani non vogliono correre, soprattutto in vista di un futuro in cui persino la “finanza sostenibile” scalzerà le tradizionali fonti di investimento. Difficile ritenersi soddisfatti per 1,05 euro ottenuto per ogni barile estratto. Valore inoltre riconosciuto solo quando la media ponderale dei prezzi rilevanti per il calcolo delle Royalties nell’anno di riferimento sia pari o superiore a 45 $/bbl. In caso contrario, il contributo per ciascun barile estratto verrà ricalcolato a ribasso. Insoddisfazione che come detto non deriva dalla base del valore accordato. Studi hanno dimostrato proprio come una delle cause della maledizione delle risorse che attanaglia paesi poco sviluppati ma ricchi di risorse naturali sia la dipendenza del proprio bilancio alla volatilità dei prezzi delle stesse risorse.
La Regione Basilicata non ha ancora reso noto il proprio piano strategico regionale di sviluppo sostenibile, sebbene il 28/12/2018 la Giunta regionale abbia deliberato l’accordo con il ministero dell’ambiente per attività di supporto in relazione all’attuazione delle strategie regionali di sviluppo sostenibile. La Regione Basilicata si era impegnata a definire un percorso di governance innovativo che permettesse di elaborare il documento di strategia regionale di sviluppo sostenibile e un focus sulle infrastrutture energetiche, oltre ad istituire una piattaforma Basgov 4.0 attraverso la quale gli attori sociali locali possano creare valore condiviso coinvolgendoli così nella stesura di tale piano strategico. Mentre diventa sempre più evidente l’effetto dei cambiamenti climatici sul pianeta, la necessità di attuare politiche utili alla mitigazione e all’adattamento dello stesso, la regione Basilicata è ancora ferma al palo. La piattaforma Basgov 4.0 di partecipazione di tutti gli attori sociali non sembra esistere. Bisogna fare in fretta, il cambiamento climatico non aspetta e la transizione energetica è uno dei pilastri per la mitigazione dello stesso e pare davvero difficile conciliare tutto ciò con le attività estrattive.
Sarebbe quindi forse il caso di iniziare a guardare al futuro e pianificarlo, in alcuni punti ben delineato dal PNRR. Bisognerebbe iniziare ad investire sulle reti, le comunità energetiche e sull’autoconsumo, chiudendo col passato. Soltanto così si potrebbe soddisfare la democratizzazione dell’energia, carattere implicito nella definizione di sostenibilità della stessa. Sarebbe necessario adottare politiche di salvaguardia del territorio e fare anche in modo che ciò venga riconosciuto anche economicamente. Sarebbe necessario coinvolgere tutti gli attori sociali del territorio.
Il territorio lucano è ricco di risorse naturali di valore nettamente superiore a quello petrolifero. La bassa antropizzazione che caratterizza la Regione garantisce che gli ecosistemi nel suo complesso siano praticamente intatti e conservati nel loro stato naturale. Le moderne teorie di economia delle risorse naturali evidenziano quanto i servizi ecosistemici abbiano un valore economico e sociale inestimabile, mettendo in risalto che territori caratterizzati da diffusi ecosistemi intatti debbano proteggere gli stessi e che vengano adottate politiche economiche che stimolino ciò, prevedendo incentivi fiscali e supporto finanziario agli enti territoriali e locali che attuano tutte le azioni utili alla conservazione e difesa degli ecosistemi. La tutela e la conservazione di un territorio come quello lucano dovrebbe essere la prerogativa dello Stato e di tutti in questo periodo storico e a tal proposito incentivi investimenti dovrebbero essere fatti verso questa direzione.
Tra i servizi ecosistemici più evidenti che il territorio lucano fornisce vi è evidentemente l’approvvigionamento idrico che garantisce il fabbisogno idrico anche delle regioni limitrofe.
È anche per questo che il tema Acquedotto Lucano non può essere ridotto solamente ad uno scontro di potere fra i partiti presenti in Consiglio Regionale, ma rappresenta una scelta decisiva per la governance di un servizio e di un bene comune decisivo per l’economia e l’ecosistema della Basilicata. Specialmente dopo l’aumento delle tariffe sul consumo dell’acqua pubblica che va a pesare sull’economia familiare lucana, malgrado le smentite e le tardive prese di posizione della Giunta Regionale che ha preferito mandare avanti i sindaci e restare in trincea.
Il passaggio sul tema idrico è decisivo e strettamente collegato a quello del petrolio e delle estrazioni. Il Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee (PiTESAI) – uno strumento di pianificazione generale delle attività minerarie sul territorio nazionale, volto ad individuare le aree dove sarà possibile svolgere o continuare a svolgere le attività di ricerca, prospezione e coltivazione degli idrocarburi in modo sostenibile – nel rapporto preliminare predisposto nell’ambito del processo di Valutazione ambientale strategica (VAS) di fine aprile 2021, identifica nelle coste marine lucane un patrimonio da tutelare e da liberare dal peso delle concessioni in virtù del contributo che già rende al Paese. Questo non è un risultato al quale si arriva senza battaglie. Speriamo che altrettanto rilevante venga considerata l’infrastruttura dei sistemi di distribuzione idrica della Basilicata come discriminante per riconoscere un’area idonea alla coltivazione degli idrocarburi, come riportato nelle osservazioni che la Regione ha presentato in fase di consultazione VAS del rapporto preliminare PiTESAI.
Il “Referendum trivelle” ha segnato un passo decisivo in questo senso, malgrado il clima politico e culturale contrario, ascrivibile a chi aveva impegni di governo in quella fase ed a chi li ha in questo momento. Chi era stato etichettato come “comitatino” o “no triv” aveva creduto in un tema che poi si è rivelato essere decisivo per il futuro: quello della transizione ecologica. E la vicenda di venerdì scorso del Golfo del Messico in fiamme per la perdita di un gasdotto rafforza questa posizione.
Qualcuno ha scritto che l’ecologia senza lotta di classe è giardinaggio. In Basilicata oltre all’assenza storica di un modello di sviluppo e di una dimensione sociale della giustizia, è venuta meno anche l’idea di ecologismo stesso. Ma non è possibile accontentarsi. La giustizia ambientale passa anche attraverso la giustizia sociale e viceversa. I conflitti ambientali sono più comuni e diffusi dove le popolazioni sono deboli. Ridurre le disuguaglianze sociali, garantire lo sviluppo sociale del territorio porterebbe anche a maggiore tutela e difesa ambientale del territorio. La tutela del nostro patrimonio ambientale, paesaggistico, culturale, sociale e industriale deve accomunare le nuove generazioni in una grande battaglia che metta al centro del proprio interesse il futuro della Basilicata.
Enrico Mattei durante la sua visita in Basilicata disse: “Ci siamo portati dietro la triste leggenda di un Sud palla di piombo al piede dell’Italia. Tutto questo non è vero. Dobbiamo smentirlo nel modo più deciso”. È questa la sfida della nostra generazione e non può più essere rimandata.
Marco Cuccarese, Raffaele La Regina
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