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Sul reddito di cittadinanza c’è poco da ridere

11 marzo 2018 | 12:20
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Sul reddito di cittadinanza c’è poco da ridere

Prima o poi dobbiamo accettare, e anche promuovere, il rovesciamento di molti paradigmi. A partire dal paradigma del lavoro

Dare il pane a chi ha bisogno non è una cazzata. E’ un diritto umano fondamentale.  E dopo aver dato il pane, si dia la farina per farlo. Questo è un altro diritto umano. E dopo avergli dato la farina gli si dia La terra e i semi. Gli si consenta di coltivarla e di produrre per se e per gli altri. E questa è giustizia.  E chi non vorrà produrre il grano, si occuperà del cielo e della pioggia, della bellezza dei campi e delle case. E chi non vorrà fare questo, si occuperà della musica, dell’arte, o della solidarietà verso coloro che ancora hanno bisogno che gli si dia il pane. Fino a quando nessuno avrà bisogno che gli si dia il pane. E allora tutti vivranno una vita  degna di essere vissuta. La società si evolve nel bello dell’esistenza e mai nella bruttezza del bisogno. E chi investe nella bruttezza, per assicurarsi la sua comoda, personale, egoistica agiatezza, non fa evolvere in alcun modo l’umanità.

Non scherziamo col fuoco

La povertà e la disoccupazione sono fenomeni strutturali in una lunga congiuntura che ha ormai più di 50 anni. Un fenomeno che è destinato a crescere, nonostante i benpensanti liberisti dell’eden degli algoritmi e delle fantastiche tecnologie. I dati dimostrano che, al momento, e il momento ormai si avvicina ai 30 anni di età, la rivoluzione tecnologica non crea tanti posti di lavoro quanti ne sopprime. E sarà sempre così. Basta fare un calcolo aritmetico tra la quantità di lavoro umano e il tempo di lavoro umano necessari per produrre qualsiasi cosa e la popolazione in età lavorativa e quella in età pensionabile. Tra la produzione e il consumo, tra la quantità di prodotti potenzialmente in circolazione e la popolazione in grado di acquistarli. Potremmo continuare a lungo con l’aritmetica, ma basta guardarsi intorno per capire che la strada è tutta in salita. Oppure è in discesa. E questo dipende dai punti di vista.

Il mio è che prima o poi dobbiamo accettare, e anche promuovere, il rovesciamento di molti paradigmi. A partire dal paradigma del lavoro.

Il lavoro è un diritto?

C’è la storia di Giovanni, che lavora in una miniera, otto ore al giorno e turni di notte. “Fisicamente ti annienta questo lavoro. Tra lavoro e sonno, mi restano poche ore per vivere la mia famiglia, i mei amici, i miei hobby, le mie passioni. Avrei voluto fare il chitarrista e guadagnarmi da vivere suonando nei locali, ma non è andata così. Comunque posso dire di essere fortunato: io un lavoro ce l’ho, il pane non mi manca.”. C’è la storia di Anna, che lavora in una fabbrica che produce mine anti uomo e dispositivi per carri armati. Otto ore al giorno e turni di notte, alla catena di montaggio. “L’angoscia di produrre strumenti di morte, spesso mi assale nel sonno. Quando alla tv fanno vedere scene di guerra, bambini morti e feriti, cambio canale. Poi penso che se quel lavoro non lo faccio io, lo fa qualcun altro. E’ un lavoro e basta. E sono fortunata.” C’è la storia di Salvatore, ex tossicodipendente, ex detenuto, che lavora, grazie ad un progetto di inserimento del Comune, nei vespasiani, pulisce i cessi. Poche ore al giorno, quanto basta per sopravvivere. “Dicono che così riacquisto dignità, vorrei vedere loro a pulire i cessi. Comunque è meglio di niente.” C’è la storia di Francesco, ex carpentiere, disoccupato da cinque anni, con una famiglia finita nelle statistiche come assolutamente povera. “Ho mandato curriculum dappertutto, ho girato per tutta la provincia. Ma niente, sembra che tutto si sia fermato. Non so più come fare.” C’è la storia di Loredana, laureata in architettura da tre anni, ancora sulle spalle della madre pensionata. Ha fatto domanda per un lavoro stagionale ben pagato in Svizzera, in agricoltura. Sta aspettando. Cinque storie per farsi una domanda: il lavoro è un diritto o un dovere? Nella genesi 3.19 leggiamo: “Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. (…) Con il sudore del tuo volto mangerai il pane”. Da qui la semplificazione culturale, sopravvissuta fino ai giorni nostri, per cui “se non lavori non mangi”. Lavorare è dunque un dovere, perché nel tempo è diventato un diritto? “Il lavoro, notava George Simmel, è innanzitutto fatica, molestia e difficoltà; di modo che, quando il lavoro non è tutto ciò, si suole mettere in evidenza che non si tratta di vero lavoro”. Potremmo quindi affermare che quello raccontato nelle cinque storie è lavoro vero. E se lavoro vero è, l’unico diritto che possiamo scorgere in quei racconti è “il diritto di mangiare” che, però, deriva da un dovere: il dovere di lavorare. Detto questo, molti sostengono che il diritto al lavoro non va inteso in senso pecuniario, ma come diritto a lavorare, anche per conservare la stima di sé, per mantenere la propria dignità, altrimenti diventerebbe un diritto al reddito. Su questa osservazione ci sarebbe molto da obiettare, ma per sintesi mi chiedo per quale ragione una persona dovrebbe avere il diritto alla dignità e non anche il diritto di mangiare? Ecco la prima domanda. Qui la risposta potrebbe essere semplice. La dignità non è un diritto, è di più: è il valore intrinseco dell’essere vivente umano, dato alla nascita, perché partecipante alla comune umanità. Il lavoro dunque, non serve a dare dignità. Dovremmo forse pensare che un uomo o una donna che non hanno mai lavorato, per scelta, o per necessità, sono privi di dignità? Vorremmo forse dire che un ragazzo con la sindrome di down acquista, o completa, il suo valore intrinseco di essere umano soltanto quando comincia a friggere le patatine da McDonald’s? Non credo. Però, direbbe qualcuno, il lavoro nobilita, gratifica, ti fa sentire parte del mondo produttivo e quindi attore nella società, padrone del proprio destino. Sì, ma soltanto a certe condizioni: una su tutte, fondamentale, è che sia scelto e non imposto dalla necessità di mangiare.

Se il lavoro nasce con il capitalismo, l’alternativa al capitalismo è nell’alternativa al lavoro. Ma a certe condizioni che riguarderanno soprattutto i rapporti di forza in campo tra neo capitalismo proprietario degli algoritmi e nuove forze rivoluzionarie umanitarie che spingeranno nella direzione di una sana ed equilibrata ridistribuzione della ricchezza prodotta. (Continua nella pagina seguente)

Dal lavoro umano all’algoritmo

Che fine stanno facendo I bigliettai? La stessa fine dei benzinai e dei centralinisti. La stessa fine degli addetti alla logistica nelle aziende come Amazon: sostituiti dai robot. La tendenza tutta in discesa, riguarda al momento, il settore auto motive, la grande distribuzione e, soprattutto, la logistica e i trasporti. Gli algoritmi avanzano anche in campo medico, nelle professioni intellettuali, nel giornalismo, nella produzione del cibo. Oggi abbiamo la segretaria Cortana, domani avremo anche l’avvocato e il medico robot. Un tempo se perdevi il lavoro nella manifattura per causa di un telaio meccanico, ne trovavi un altro nei servizi, o nei trasporti. Oggi non è più così. Se perdi il lavoro in banca per colpa dello sportello automatico, non c’è altra possibilità. Se perdi il lavoro in fabbrica per causa dei robot, vedrai il futuro colorato di nero. Salta la mediazione del lavoro umano tra le macchine e la produzione. Bisogna fermare il progresso tecnologico? Impossibile. Inutile. Allora? Il dibattito sul lavoro rimane fermo su vecchi schemi lavoristici del ventesimo secolo. Questo è il primo problema. Lamentarsi del fatto che gli algoritmi tolgono posti di lavoro agli esseri umani, equivale a non affrontare il problema. Peggio se qualcuno propone di fermare i robot per restituire il posto al lavoratore umano. Sarebbe una tragedia . A lamentarsi sono gli stessi che saltano di gioia per i voli last-minute di Expedia, per gli acquisti su Amazon, per i corsi universitari online, per la musica scaricata gratis da internet. La tecnologia ci consente di produrre di più con meno risorse umane. Questa è una tragedia? Non direi. La politica e il sindacato devono porsi il problema da altri punti di vista. Finché si è in tempo occorre pensare a una società libera dal lavoro per come lo abbiamo conosciuto negli ultimi due secoli e fino ad oggi. Per liberare la società dal lavoro, la politica e il sindacato devono affrancarsi dalla vecchia ideologia lavoristica, mettendo in campo nuove politiche e nuove relazioni industriali. Le domande su cui riflettere sono molte e anche complicate. Se è vero che i robot faranno il lavoro che è stato sempre prerogativa degli esseri umani, la ricchezza prodotta, come e a chi verrà distribuita? I robot pagheranno le tasse per garantire il welfare? E quale welfare? Andiamo incontro a una fase storica inedita ma immaginabile, per cui è inutile far finta di non vedere. La fetta della torta che finisce nelle tasche dei lavoratori non è mai stata così piccola nell’ultimo mezzo secolo.

Decine, centinaia di milioni di persone non avranno più un lavoro, questo non vuol dire che non avranno più di che vivere. Milioni di persone non avranno più un lavoro per come lo immaginiamo oggi, ma avranno certamente da fare in altri campi, quali campi? Si apre una fase necessaria di massicci investimenti nella cultura, nell’istruzione, in un nuovo welfare. Campi questi che potranno garantire ai liberi cittadini di domani di agire nella vita con un senso nuovo e liberato dal lavoro per come Simmel lo ha descritto. Saremo costretti, per fortuna, a rovesciare le vecchie logiche della produzione e dei rapporti di produzione.

Chi paga oggi il conto e chi lo pagherà domani?

Facebook, Google, Ibm, Microsoft e tutti gli altri, insomma i colossi della Silicon Valley sono il neo capitalismo improduttivo che sfrutta il lavoro gratis degli utenti, per fare soldi e pompano il capitalismo finanziario. Che dire di Airbnb, Amazon, Uber e tanti altri che distruggono lavoro umano? Tutti pagano quasi zero tasse e il conto della loro crescita esponenziale è pagato dai lavoratori, sfruttati oltre ogni limite e dai cittadini, costretti a subire un fisco aggressivo per ripagare i danni sociali. Queste aziende non sono nemmeno più gruppi industriali ad alta intensità di capitale ma imprese tecnologiche ricche di proprietà intellettuale. Scrive Rana Foroohar sul Sole24 ore. “Mentre i colossi della Silicon Valley prosperano, tutti gli altri perdono terreno. Le loro piattaforme hanno offerto ai consumatori nuovi prodotti e servizi efficacissimi a prezzi più bassi, ma il minor prezzo dei gadget non compensa neanche lontanamente il declino della quota del lavoro causato dal progresso tecnologico. E anche se queste aziende non violano necessariamente le leggi a tutela della concorrenza, è evidente che esercitano un potere di tipo monopolistico nel mercato, come dimostrano costantemente cose come i recenti tentativi di Google di lanciare un ad-blocker o la politica di Facebook di acquisire smaniosamente qualsiasi azienda più piccola possa in qualche modo profilarsi come concorrente.”

Insomma a farne le spese sono anche le piccole e medie imprese. La sfida dunque è da un lato la creazione di un vero libero mercato delle produzioni intelligenti, evitando l’accumulazione in poche mani di proprietà intellettuali, dall’altra la creazione di sistemi fiscali di garanzia di ridistribuzione della ricchezza prodotta. Qui è difficile immaginare una mano invisibile alla Smith. Bisognerà evitare l’avviarsi di un circolo vizioso già abbozzato in questi ultimi anni per cui il “costo ricade sempre sugli innocenti”. E’ questa la sfida che avrà di fronte la politica e il sindacalismo. Non avrà molto senso in prospettiva lottare per un euro in più agli addetti alla logistica di Amazon i quali sono già super sfruttati. Avrà senso costringere Amazon a cedere pezzi di ricchezza che serviranno a dare una prospettiva di vita ai lavoratori che saranno espulsi dai processi produttivi e ai cittadini che in quei processi produttivi non ci entreranno mai anche per loro legittima scelta. (Continua nella pagina seguente)

Le criticità della proposta del Movimento 5 Stelle

E’ un reddito che vada a colmare la distanza tra soglia di povertà e disponibilità economica dei singoli e delle famiglie. A condizione che se ti propongono un lavoro tu lo accetti. Se lo rifiuti perdi il reddito. E’ una proposta complicata, anche stravagante se vogliamo, ma ha il pregio di sollevare una questione molto seria: il diritto a non morire di fame. La distanza dei tempi della politica e dei bisogni della gente è abissale. Fino a quando la politica e il “libero mercato” trovano le soluzioni, i poveri muoiono. Tuttavia siamo di fronte a complicazioni serie. Intanto queste offerte di lavoro non si capisce da dove e da chi arriveranno, perché qui la domanda è: ma allora il lavoro c’è? E se c’è perché c’è tanta povertà e tanta disoccupazione? In questi dubbi risiede una delle contraddizioni del reddito di cittadinanza così come è stato proposto. E ammesso che c’è e che il problema riguarda l’incontro difficile tra domanda e offerta come si risolve la questione? Loro dicono, con un sistema qualificato dei centri per l’impiego. Sarebbe dunque necessario, semplificando: a) riformare i centri per l’impiego (carrozzoni straordinari e inutili); b)creare meccanismi inediti di promozione dell’incontro tra domanda e offerta; c) formare o riqualificare risorse lavorative umane obsolete e generalmente scarse. In mezzo a tutto questo, per non semplificare ulteriormente, ci sarebbe tanto altro: una riforma del mercato del lavoro, politiche economiche espansive, investimenti pubblici, riforma del sistema di istruzione e dell’università e via cantando. Vale a dire che un reddito di cittadinanza così immaginato, per non apparire di natura sostanzialmente assistenzialistica, richiede un sacco di cose da fare. Nel frattempo diamo un reddito a tutti coloro che vivono sotto la soglia di povertà. Insomma tutto complicato, quasi irrealizzabile e, in parte, ipocrita.

Occorre più coraggio

Sarebbe meno ipocrita e più semplice prevedere un reddito minimo garantito a tutti coloro che vivono sotto la soglia di povertà assoluta. Senza altre pretese. Partendo da un principio fondamentale: tutti hanno diritto di mangiare. Qualcuno solleverebbe l’obiezione che non ci sono i soldi. A questa obiezione è sufficiente rispondere con un sonoro chissenefrega! La gente non può morire di fame. I soldi si trovano, sempre, basta cercarli. Si trovano sempre anche al costo di sacrificare la legalità in nome della Giustizia. E’ giusto rubare una pagnotta al supermercato se hai fame, è illegale rubarla. E quando sei costretto a rubare la responsabilità in parte è tua, in parte è dello Stato e della Società malata, del dominio neo liberista, delle rendite e dei meccanismi diabolici di accumulazione delle ricchezze. Certo, la trappola della povertà è sempre in agguato. E allora, io Stato, darò ai tuoi bambini una buona scuola, farò in modo che vivano in una buona casa, in un quartiere dignitoso. Farò in modo che i tuoi bambini abbiano tutti gli strumenti necessari ai loro percorsi di crescita e alle loro prospettive di vita. Metterò in campo politiche di sviluppo per evitare che in futuro ci siano poveri a cui assegnare un reddito minimo. Al contrario sosterrò i bambini, i ragazzi, i giovani con incentivi e agevolazioni affinché possano studiare e poi costruirsi una vita dignitosa. Darò a loro un reddito di partenza. E quindi adotterò misure fiscali che vanno in questa direzione, riformerò il welfare, costruirò nuove relazioni industriali tra Stato e mondo delle imprese, sosterrò le imprese produttive e contrasterò le rendite. Insomma farò una buona politica. Cercherò le alleanze in Europa e nel Mondo affinché nessuno abbia la necessità di dire “sì” sotto la minaccia della fame. Affinché tutti siano liberi di dire “no” quando gli propongono di pulire i cessi e quando a pulire i cessi ci sono già i robot.