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Io, violentata da “un bravo ragazzo”

17 dicembre 2024 | 17:46
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Io, violentata da “un bravo ragazzo”

Condanna in Appello per Alessandro Napolitano accusato dello stupro di San Valentino del 2014 ad Abriola. La vittima: “ho trovato il coraggio di andare avanti nonostante la scarsa solidarietà dimostrata dalla mia comunità. E oggi voglio parlare”

“Da vittima a carnefice, perché all’improvviso chi mi aveva violentato era diventato un ‘bravo ragazzo'”. Sono passati quasi undici anni, da quella sera in cui Maria (nome di fantasia) è stata violentata a pochi passi dal luogo dove si stava svolgendo la festa di San Valentino, nel paese noto come quello dell’amore e degli innamorati: Abriola, in provincia di Potenza. È lei a chiederci espressamente di fare il nome del paese dove i fatti sono accaduti perché “dopo tutto quello che ho dovuto subire è giusto che la mia comunità si assuma la responsabilità di non avermi mostrato solidarietà di fronte ad un fatto così grave”.

Il 27 novembre scorso, al termine del processo d’Appello, Alessandro Napolitano, è stato condannato a cinque anni per quella violenza.

“Qualcuno, in paese, dice che la condanna non riguarda quei fatti, come se quella sera non fosse successo niente”. Anche se fa fatica, Maria vuole ripercorrere quanto accadutole perché è giusto che il coraggio dimostrato fino ad oggi, sia finalizzato a far comprendere che nessuna vittima di violenza debba rimanere in silenzio per paura o vergogna.

Il 14 febbraio nel piccolo paese del potentino si celebra la festa del santo degli innamorati. Quella sera del 2014 Maria era impegnata in uno dei tanti stand con altri volontari, quando è stata trascinata con la forza in un luogo appartato dove poi si è consumata la violenza. A farle del male “non è stato uno sconosciuto,  al contrario è stata una persona “quasi di famiglia”. L’uomo, che all’epoca aveva 29 anni, tempo prima le aveva confessato che lei gli piaceva, “ma, in un’occasione, mi aveva spaventata dicendomi che per lui ero come una droga, quindi presi le distanze. Tuttavia le sue attenzioni nei miei confronti diventano sempre più opprimenti, tanto che confido i miei timori ai carabinieri, senza però denunciarlo, pensavo di riuscire a tenerlo a bada. Fino alla sera di San Valentino del 2014 quando mi aggredisce dicendomi “ti devo castigare”.  Nel vortice della festa, in paese quasi nessuno si accorge di nulla. “Solo un gruppo di ragazzi di un paese vicino assiste alla scena di lui che tenta di trascinarmi, ma lui li minaccia e loro vanno via. E così dopo avermi portato in un posto isolato e avermi scaraventata per terra abusa di me. Dopo di che scappa”.

“In quel momento non potevo nemmeno telefonare avendo lasciato il cellulare allo stand e così dopo essermi ricomposta alla meglio, dolorante e sangiunante, mi sono spostata da quel luogo maledetto incamminandomi verso casa e chiedendo a una ragazzina che ho incontrato di andare a prendere le mie cose (il cellulare e la borsa) e di avvisare gli altri che non stavo bene”.

Sarà un’amica a convincerla a denunciare: il racconto di quanto accaduto ai carabinieri trova una prima conferma nelle macchie di sangue rinvenute sul luogo della violenza. L’uomo viene arrestato e nel 2020 arriva alla sentenza di primo grado con la condanna a sei anni e sei mesi.

Al di là della vicenda processuale e della condanna, anche in appello, (resta la Cassazione) in questa storia a segnare un capitolo importante è la reazione di una comunità  che, tranne poche eccezioni, ha dimostrato comprensione più per il carnefice (tra l’altro noto in paese per i suoi scatti violenti).

Maria ricorda tutto nitidamente: l’iter sanitario percorso per accertare la violenza, gli esami fatti, l’attesa dei risultati. “Quando abbiamo fatto l’incidente probatorio, io, accompagnata solo da mia sorella. Per lui quel giorno c’erano almeno venti persone venute a Potenza a sostenerlo. In quell’occasione ho dovuto ripercorrere tutto nei minimi dettagli”. E poi “la sfilata dei testimoni a suo favore (due sono stati denunciati per falsa testimonianza), quelli che mi hanno detto che avrei fatto bene ad andarmene dal paese, come se dovessi vergognarmi io per quello che mi era stato fatto”.

La gogna, insomma, non le è stata risparmiata. E intanto però la donna ha dovuto trovare il coraggio di vivere, nonostante tutto. Anche nei momenti più difficili. Per amore di suo figlio, all’epoca poco più che un bambino, a cui ha raccontato tutto e che non è stato risparmiato da chi ha puntato il dito contro di lei: “ero quella che voleva farsi i soldi sulla pelle di quello che all’impovviso era diventato un bravo ragazzo”, “quella che nemmeno il marito era riuscita a tenersi”. “Sono stata violentata un anno e mezzo dopo che ero stata lasciata da mio marito” e anche in quel caso la vulgata le aveva attribuito la colpa.

“Ricordo bene quelli che dopo la denuncia non mi hanno salutato più in paese. E poi la paura di perdere mio figlio quando al Comune, un paio di anni dopo la violenza, qualcuno ha ventilato l’ipotesi che sarebbe stato meglio portarlo in una casa famiglia perché io con i pochi mezzi economici che avevo non potevo dargli da mangiare”. “Ricordo le parole del giudice del Tribunale per i Minorenni, mi tranquillizzò dicendomi che non mi avrebbero tolto mio figlio solo perché ero povera”. E così è stato. “E poi la mia fede, incrollabile, anche quando mio figlio mi ha detto mamma, Gesù ci ha abbandonato”. Ho avuto grande sostegno dal maresciallo dei carabinieri dell’epoca che in più di un’occasione mi ha detto che chi doveva vergognarsi non ero io. Le amiche più care che non mi hanno fatto mancare la loro vicinanza e la mia avvocata, Maria Teresa Schiavo, anche lei presa di mira dalle voci di paese solo per avermi assistito”.

“Il coraggio che ho dimostrato, anche rimanendo a vivere nel mio paese, è la somma di tutto questo”. È fiera Maria di essere riuscita a non farsi inghiottire da quel buco nero che ha dovuto combattere per tutti questi anni. “La sentenza di appello mi conforta, mi conforta meno, invece, il tempo che ci è voluto per ottenere giustizia. Ma era questo che volevo: giustizia.  Non mi interessa il risarcimento economico che pure i giudici di Appello, come in primo grado, hanno stabilito. Se non lo avrò non mi straccerò le vesti. Quelle mi sono state ridotte a brandelli prima dal mio violentatore e poi da tutti quelli che all’improvviso, dopo che io avevo denunciato, hanno deciso da che parte schierarsi. Forse perché dalle mie parti sono ancora in molti a pensare che le donne debbano subire in silenzio qualsiasi angheria. Io non l’ho fatto”.