La Basilicata, la Sinistra che non c’è e le fabbriche che chiudono

7 novembre 2024 | 17:35
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La Basilicata, la Sinistra che non c’è e le fabbriche che chiudono
Presidio lavoratori a Tempa Rossa

Ci si affanna giustamente a salvare posti di lavoro a tutti i costi, spesso pagati con risorse pubbliche e con il ridimensionamento dei diritti, dei salari e dell’occupazione. Non si può andare avanti così. Basta con la paura che “il meglio di niente” si trasformi in niente

L’utopia ha bisogno del realismo e viceversa. Rendere produttiva questa necessaria contaminazione è stata ed è la fatica di chi, da quasi due secoli, cerca di trasformare il mondo in un posto migliore. Tuttavia è accaduto che gli utopici e le loro utopie siano andati scomparendo e ridotti a minoranze spaesate. Mentre coloro che si sono affidati all’esperienza storica corrente, cioè quelli del realismo, tipico dei riformisti, sono finiti nella gabbia di un “realismo cinico”. E questi sono la maggioranza nella “moderna” e falsa Sinistra europea e italiana e, in altro modo, nelle Destre sovraniste. Oggi, è evidente, la politica non sa che farsene dell’utopia e ha ridotto, nel corso del tempo, gli ideali a rivendicazioni, nel quadro della natura sistemica del capitalismo e della sua evoluzione.  La Sinistra “moderna” oggi – e direi già dagli Anni 80 – accetta questa natura sistemica ed inevitabile, consolidata nel neoliberismo che con la sua espansione globale è ormai egemonico. Neoliberismo fattosi “religione” e ideologia assoluta. Si tratta di un modello economico, sociale e culturale che potremmo definire “il male che si vorrebbe far credere faccia del bene.”

Se vogliamo un mondo migliore non è con la realtà che bisogna fare i conti, ma con le utopie, nel senso utopico e non utopistico.  Se, invece, vogliamo difenderci, tutelarci, sopravvivere, reagire al peggio, allora sì, è con la realtà che bisogna combattere. Tuttavia, la storia ci insegna che questa lotta con la realtà peggiora la realtà. Semplicemente perché il neoliberismo ha il potere sulla realtà. Ha nelle proprie mani i mezzi di produzione digitali, dell’IA, degli algoritmi e accumula continuamente informazioni sulle vite private per darle in pasto alla ferocia del consumismo.

Detto questo, è evidente che per superare la logica dell’inevitabilità di una società costruita ed egemonizzata dal neoliberismo occorre immaginare un’alternativa al mondo così com’è. Per farlo c’è bisogno di “un’infrastruttura intellettuale” capace di costruire una immagine del futuro che escluda dal panorama della vita economica e sociale quel modello. C’è bisogno di un progetto scismatico dentro una visione utopica. Nella sinistra italiana, europea e di tutti i Paesi occidentali, di quel progetto e di quella visione non c’è traccia. E non c’è traccia anche perché la Sinistra, soprattutto italiana che ha origini ben diverse dalle altre, ha smesso da oltre 40 anni di praticare una seria e profonda autocritica sul proprio “essere nella storia”.

Per farla breve, a furia di lottare con la realtà per decenni, siamo finiti nella condizione contraria al “sol dell’avvenire” e alle “magnifiche sorti progressive”.  Dal pensiero lungo degli intellettuali dell’utopia, al pensiero corto di quelli che poi sono diventati “i progressisti” e che hanno fatto da stampella al capitalismo e alle crisi che lo hanno coinvolto nel corso della storia. Ma il pensiero corto risale almeno ad un secolo fa, quando appariva “rivoluzionario e radicale”. E cioè quando bisognava industrializzare i territori affinché la Sinistra potesse contare su maggiori forze di ribellione: più forze di produzione, più capitalismo = più forze di ribellione. Un’equazione devastante. Abbiamo assistito da allora in poi a decine di migliaia di operai, molti ex contadini (forze di ribellione) ridotti a carne da macello nell’industria chimica, petrolchimica e dell’acciaio: da Marghera a Taranto, da Mestre a Gela, dalla Val Basento a Tito, dall’Acna di Cengio a Bagnoli. Migliaia di morti tra le maestranze e tra gli abitanti delle città “industrializzate”. Era il futuro, erano le magnifiche sorti progressive. Per tutto il tempo e fino ad oggi tutta la Sinistra e il sindacalismo italiani non hanno fatto altro che difendere e tutelare quel modello industrialista, spesso, come accade ancora oggi, tacendo per timore che le fabbriche chiudessero. Le stesse “forze di ribellione”, i lavoratori, hanno accettato e continuano ad accettare scenari di sottomissione, di precariato, di schiavitù, per paura che “il meglio di niente” si trasformi in niente.

Ed è quello che accade oggi dappertutto. Qui in Basilicata, lo vediamo alla Stellantis, nell’area industriale di San Nicola di Melfi, nell’industria petrolifera della Val d’Agri e dalla Valle del Sauro. Una Sinistra, politica e sindacale, che ha mantenuto e continua a mantenere i lavoratori nelle condizioni di “cattiva subalternità” alla legge del profitto. Facendo così da sponda non solo agli affamati azionisti, ma alla destra incolta e conservatrice. Pochissimi hanno messo e mettono in discussione il dogma dell’industria e del lavoro simboli di “progresso e modernità”. Il pensiero corto si è trasformato in un pensiero al passato remoto, quindi un pensiero morto che ancora respira nell’idea novecentesca di industria e di lavoro. E questo nonostante l’economia e i mercati vadano in tutt’altra direzione: la finanziarizzazione, l’automazione di tutto ciò che si muove nella produzione e nel consumo.

In Basilicata, nel mentre ci si affanna giustamente a salvare posti di lavoro (anche a tutti i costi, spesso pagati con risorse pubbliche e con il ridimensionamento dei diritti, dei salari e dell’occupazione) occorrono idee e azioni finalizzate a costruire nuovi sentieri di sviluppo anche alternativi all’attuale tessuto “produttivo” industriale prevalente. Tessuto che va esaurendosi inesorabilmente. Non c’è altra via. E questo compito spetterebbe alla Sinistra politica e sindacale. Ma il punto è proprio questo, politicamente parlando. Diceva Leszek Kolakowski, quando era un giovane comunista polacco dallo spirito libero, che “la sinistra non può fare a meno di un’utopia”, anzi – spiega meglio il filosofo – la sinistra produce utopia perché è nel suo Dna. Purtroppo non è più così. La Sinistra oggi insegue un riformismo la cui azione assomiglia molto alle fatiche di Sisifo. Il macigno ricade sempre indietro e ogni volta che rotola a valle della collina travolge le speranze di milioni di persone. Oggi, purtroppo, appare un’utopia persino rimuovere le disuguagliane e le ingiustizie sociali, perché in molti a “sinistra” credono che siano necessarie e naturali. Ci rendiamo conto quindi che l’utopia non è una delle forme dell’impossibile, ma un pensiero strategico imbevuto di politica, di progettualità e di azione, carico di passione trasformatrice e rivoluzionaria.

Dunque, che fare? Se esiste ancora un campo culturale sottratto ai Talk e alla servitù, è da lì che bisogna partire per costruire quelle “infrastrutture intellettuali” necessarie all’innesco di processi veri di cambiamento. Se esiste ancora, da qualche parte, una cultura utopica, è lì che bisogna piantare i semi del futuro. Quello che manca oggi è la Politica, ne abbiamo tanto bisogno. Manca quell’ azione “pedagogica” della Politica che aiuti le persone a comprendere l’importanza della partecipazione e del pensiero critico. E, soprattutto, manca la Cultura, surrogata dalle subculture frastagliate di simboli consumistici e anestetici che spopolano nel web. Quelle subculture che hanno portato all’esaurimento, e per certi versi al decadimento, dell’intelligenza sociale.

I partiti, le organizzazioni sociali, i movimenti fanno bene ad occuparsi della realtà, dell’emergenza, dei tentativi di migliorare le condizioni di vita e di risolvere i problemi, qui e ora. Tuttavia, accanto a questa attività, necessaria, manca il livello utopico. Vale a dire gruppi che dentro e fuori le organizzazioni politiche e sociali, sottratti all’impegno nella quotidiana lotta con la realtà, agiscano in spazi di utopia per elaborare strategie di futuro che rendano le stesse organizzazioni veicoli animati anche da impulsi utopici. Questo livello non c’è, e se c’è non si vede oppure è inadeguato. Tutti affaccendati a confrontarsi con la “rozza materia.” Attenzione però, i due mestieri, ossia del pensatore “utopico” e del politico (o del sindacalista) “che risolve i problemi concreti”, non sono sovrapponibili.

E qui torna il tema della Cultura e del legame che sembra ormai reciso tra campo intellettuale- artistico e organizzazioni politiche. Le strade si sono divise a partire all’incirca dagli anni Ottanta, non a caso. Bisogna accettare il fatto che molti spazi utopici risiedono nella Cultura e nelle Arti ed è da lì che la Politica deve attingere per sanare il vuoto di utopia che la caratterizza. Tuttavia, non è nel gramsciano intellettuale organico la soluzione, ma nella capacità della politica di rinnovare i propri riferimenti culturali e di accogliere, anche criticamente, le idee e il pensiero di decine di autori di diverso orientamento che negli ultimi 30 anni pare nessuno abbia ascoltato. Ed è questo un altro dei mali del secolo che ci costringono al pensiero corto: gli intellettuali parlano ai muri e i muri non ascoltano. E’ tutto un rimbalzare di confusione.