Basilicata. Se non si cambia rotta altre fabbriche chiuderanno e migliaia di lavoratori saranno licenziati
Una classe politica e “dirigente” che ci raccontava la favola della ricchezza e dello sviluppo mentre la realtà camminava in direzione povertà e sottosviluppo. L’aria di futuro scarseggia come l’acqua dai rubinetti, e i giovani lo hanno capito
E’ il mercato, bellezza. I segnali di crisi dell’economia locale, in specie dell’occupazione, hanno almeno 15 anni di vita. Ma si è preferito “tirare a campare” tra un’elezione politica o amministrativa e l’altra. Tuttavia, la croce di questa crisi non può essere completamente addossata sulle spalle delle istituzioni regionali e locali. Per un semplice motivo: le variabili in gioco sono diverse e complesse. Molte le varabili e i vincoli esterni su cui la Regione, né i Comuni hanno il potere di intervento. Si pensi agli andamenti del mercato e del mercato azionario nei settori più esposti alla competizione internazionale e all’automazione dei prodotti e dei processi produttivi. Neanche i Governi hanno la forza sufficiente per orientare i flussi decisionali appannaggio delle grandi corporation e dei grandi monopoli. A comandare sono i grandi azionisti, i Fondi di investimento eccetera, il Mondo è nelle loro mani. Il potere è nelle loro mani. Tuttavia, c’è un problema politico che richiama la volontà delle istituzioni di intervenire negli spazi di manovra a loro disposizione. E qui entrano in campo le politiche economiche e industriali che, in qualche modo e in molti settori potrebbero tamponare, se non invertire, le dinamiche che producono licenziamenti e cassa integrazione. Il governo Meloni, per ragioni di cassa e non solo, sembra orientato a inseguire le vecchie logiche di “tamponamento” avviate dai tempi di Prodi, passando per Letta e infine con Draghi. Politiche neoliberiste gradite ai veri padroni del Mondo. Ma questa è una storia lunga. L’accenno serve a introdurre un altro argomento: la capacità della classe politica di fronteggiare i colossi della finanza e dell’economia. Sempre che lo si voglia.
E questo argomento è fondamentale per capire che cosa stia accadendo in Basilicata da almeno 30 anni. La svolta è negli anni 90 quando le imprese cominciano a giocare sulle crisi per chiedere sempre più vantaggi da parte dello Stato e delle Regioni. E’ il tempo della competizione tra territori per attrarre le imprese. Fiumi di denaro pubblico, fiscalità di favore, incentivi. Aiuti alla grande industria, alle banche e persino alla grande distribuzione, fino a soccombere ai colossi dell’economia digitale e ai padroni degli algoritmi.
In regioni come la Basilicata, si è puntato tutto sugli incentivi: finanziamenti e contributi pubblici alle imprese, specie esogene, per rendere appetibile il territorio che, nel frattempo non aveva e non ha le infrastrutture necessarie; incentivi e sempre incentivi per scongiurare licenziamenti e blocchi produttivi. Politiche che hanno fallito e su cui si continua ad insistere. I risultati, sul fronte industriale sono sconcertanti. Le fabbriche chiudono e licenziano. Adesso persino i petrolieri minacciano licenziamenti. La mia opinione sulle politiche di sviluppo in Basilicata le ho già espresse in più occasioni e con diversi articoli. Non sono amante della grande industria e nemmeno degli imprenditori “mangia e scappa”. Tuttavia, insediamenti industriali di piccole e medie dimensioni a vocazione territoriale e compatibili con un’idea di futuro (che non c’è) dell’economia regionale, sarebbero le benvenute. A condizione che la si faccia finita con gli incentivi post insediamento e si investano le risorse pubbliche sulla creazione delle condizioni ottimali per ospitare gli impianti cosiddetti produttivi: infrastrutture fisiche e sociali, culturali e digitali; gestione intelligente delle aree industriali. Insomma, la capacità di offrire un adeguato mix di fattori di localizzazione ai soggetti imprenditoriali che li ricercano. Ma questa capacità scarseggia come l’acqua nei rubinetti. Con la Zes unica stiamo già sperimentando le origini di un fallimento per la Basilicata.
In questa regione all’offerta del mix di fattori si è sostituito un minestrone di interessi e di affari privati. I Consorzi industriali non sono stato altro che porte girevoli della politica, affidati alle gestioni di amministratori nominati dai partiti senza alcuna volontà né capacità di mettere a valore la missione per cui sono nati quegli enti. Una storia di fallimenti e di sperpero di denaro pubblico. Le infrastrutture energetiche sono state confuse con gli affari dei signori dell’eolico e del fotovoltaico che in cambio della distruzione del capitale naturale del territorio hanno accumulato ricchezze proprie. Senza parlare della gestione dei rapporti tra istituzioni locali e multinazionali dell’energia e del petrolio. Un disastro sia sul fronte delle compensazioni sia sul fronte dell’uso delle misere risorse finite nelle casse pubbliche. E che dire delle infrastrutture idriche, un altro disastro finanziato con centinaia se non miliardi di euro. Ecco, questa regione investe ingenti risorse sui disastri. Se a questo aggiungiamo anche il capitale di fiducia che scarseggia per causa dei comportamenti del personale politico nella gestione degli affari pubblici la situazione si fa più grigia. La scarsità di capitale di fiducia contribuisce alla fuga dei giovani dalla Basilicata.
Vogliamo ricordare le condizioni della sanità e della viabilità interna di collegamento tra i paesi, le condizioni del trasporto pubblico, delle ferrovie? Non ce né bisogno. Ricordiamo, per chiudere, la distanza abissale tra la Basilicata e le dinamiche legate all’economia digitale e all’Intelligenza artificiale: marchiamo un secolo di ritardo. Ecco, tutta questa roba se non viene rimossa continuerà ad impedire qualunque processo o idea di sviluppo che siano degni di un futuro. Altre fabbriche chiuderanno, altri settori finiranno in un campo di crisi, altre migliaia di lavoratori torneranno a casa indossando il fardello della speranza delusa. Basterà un calo della domanda di beni e servizi tradizionali soppiantati dai processi e prodotti generati dall’automazione avanzata per chiudere altre fabbriche. E’ così che ha chiuso la Favorit a Tito: se non c’è ciccia per gli azionisti si mette il lucchetto allo stabilimento.
E questo perché dipendiamo da tutti tranne che da noi stessi, e non abbiamo fatto nulla per costruire negli anni una identità economica e di sviluppo della nostra regione come hanno fatto altre regioni. E’ mancata e manca, una visione. Abbiamo applaudito ai “colonizzatori” pagandoli e facendoli sfilare sul tappeto rosso. Ora, forse, dovremmo aver capito che quella illusione è finita nello scontro con la realtà di oggi. Perché l’illusione ha prodotto quello che è accaduto in Val Basento nella valle del Sauro, nella val d’Agri, a Melfi. E nelle campagne, nei paesaggi, nei fiumi e nelle montagne violentati dall’inganno dell’energia pulita che sporca l’anima delle nostre terre. Questa croce, sì, andrebbe addossata sulla politica e sui politici locali, sulla classe “dirigente” che raccontava di ricchezza e sviluppo mentre la realtà camminava in direzione povertà e sottosviluppo. Cambiate narrazione e datevi da fare, partendo da un’analisi onesta della storia economica e politica di questa regione.
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