Lucania “postmoderna”: un mondo lontano che bisogna guardare in faccia

25 agosto 2024 | 19:02
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Lucania “postmoderna”: un mondo lontano che bisogna guardare in faccia
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Lucania “postmoderna”: un mondo lontano che bisogna guardare in faccia
Lucania “postmoderna”: un mondo lontano che bisogna guardare in faccia

Prima di festeggiare “paesaggismi” bisognerebbe recuperare l’esperienza umana con questa terra

Scendo dal paese per una stradina tra calanchi arsi dalla calura estiva. Una via che man mano che s’affronta diventa sempre più asfissiante. Subito appare il depuratore del paese, e il suo puzzo travolgente. Intorno ulivi, un vitigno, qualche pecora, qualche gallina, un contadino che cura il suo orto. Dal lato opposto rifiuti urbani scaricati un po’ ovunque, senza criterio, e l’uscita delle acque del depuratore che partono come un torrentello. Colpisce la distanza percettiva che separa il contadino da ciò che ha intorno. Proseguo, poco oltre due vecchie discariche sature e chiuse dominano la vallata sottostante. I resti d’una cultura che fu, mi chiedo cosa serbino nelle loro grasse pance farcite di rifiuti, ho visto tempo addietro cosa vomitano, sentito il puzzo andar giù per quella collina incisa da fossi e declivi aridi contesi alle frane e ai rifiuti.

Non è la stessa Lucania descritta da Mario Trufelli, l’acqua che scorre oggi resta poca, ma è inquinata, forre e vallate secche accumulano ogni genere di scarto umano e industriale, e le mandrie s’abbeverano in acque fognarie nell’arsura estiva. Faranno latte formaggi e saranno carne, e poi migreranno con l’autunno avanzato tuffando prima d’andare i passi in paludi marcescenti. A distanza di qualche chilometro ancora si sente il puzzo del torrente che nasce dal depuratore e va giù in un vallone arido che taglia i fiumi Basento e Cavone.

Si incontra ben presto la violenza smodata dell’essere umano su questa terra meravigliosa che pare una scultura in continua metamorfosi. Tonnellate di rifiuti, scarti di imprese e persone sovrastano fossi e forre che cambiano in balia della violenza delle stagioni secche e piovose che scolpiscono queste colline d’argilla. Fotografo dal 2010 discariche legali e illegali in questa zona nascosta a tutti, non è la valle del Basento, ormai nota e condannata alla sua pesante contaminazione industriale. È questa la simbologia nuova, non più il rosmarino che cresce nei prati, sulle scarpate delle vie accanto ai buchi delle talpe. Qui i buchi li fa la natura e dentro ci cresce solo un senso smodato di farcirli di scarti. Crescono e bruciano gomme d’auto, pannoloni per anziani, divani, scarti di edilizia, stralci di potatura, fusti di vernici, plastica e carta d’ogni tipo, piastrelle, eternit, reti di letto.

E quando non sono buchi sono costoni che sembrano fiumi in cui si scarica di tutto. C’è ogni ben di dio, un dio strano, che qui forse non vuole guardare più. Da noi, diceva Trufelli nella sua simbologia antica e contadina, “il mondo è lontano, ma c’è un odore di terra e di gaggia e il pane ha sapore del grano”.

È vero da noi il mondo è lontano, ma bisognerebbe guardare questi luoghi in faccia con occhi contemporanei per non smarrirli, raccontare che c’è un odore di terra insozzata, e che il pane ha il sapore del grano contaminato dall’idiozia umana. Come scriveva Rosario Assunto nel 1968 sulla rivista Il Verri diretta da Luciano Anceschi, “Il problema estetico (e aggiungerei etico) del paesaggio non si esaurisce nello studio del paesaggio come oggetto di rappresentazione artistica: esso ci obbliga a fare i conti col problema del rapporto uomo-natura come rapporto estetico, che non può prescindere dagli altri rapporti tra l’uomo e la natura, dato il legame unitario che congiunge le diverse categorie costitutive dell’esperienza umana”. E forse prima di festeggiare paesaggismi bisognerebbe recuperare l’esperienza umana con questa terra.