Cultura della legalità e incultura della giustizia
A che serve tutta la retorica sulla promozione della legalità se le istituzioni e gli stessi cittadini non sono educati al senso di giustizia? Riproponiamo questo editoriale in memoria di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone
Si spendono fiumi di parole sulla legalità, ossia sul rispetto della legge e delle regole della buona convivenza civile. Le istituzioni e la politica, secondo questo continuo vociare, dovrebbero essere baluardo della legalità. Sarebbe il dettato normativo, ossia la Legge, a definire i confini di ciò che è legale e di ciò che non lo è. Diamo tutto per buono. Tuttavia c’è un problema: la Giustizia. Sappiamo che non sempre ciò che la legge dello Stato definisce legale, è giusto. E sappiamo perciò che esiste una differenza tra legalità e giustizia. Se il concetto di giustizia non ha un valore assoluto, ma è mutevole nel tempo e nello spazio anche in relazione al modello di società e alla cultura che lo informa, anche il concetto di legalità risente di una rappresentazione socialmente e culturalmente costruita. Dunque che significa educare alla legalità? Che significa promuovere la cultura della legalità? Fondamentalmente dovrebbe voler dire educare le persone al rispetto per i diritti degli altri e ai valori che ci consentono di agire secondo bontà, verità e giustizia.
E questo potrebbe essere un compito della famiglia, della scuola e di tutte le agenzie educative informali. Ma educare con la parola non basta, occorre l’esempio degli insegnanti, dei genitori, di tutti coloro che hanno un peso educativo nei confronti dei bambini e degli adolescenti.
In seguito però saranno i protagonisti della vita pubblica, vale a dire coloro che hanno un ruolo nelle istituzioni, soprattutto nelle istituzioni politiche e giudiziarie, a dare l’esempio. E dovranno darlo soprattutto quando salgono sui pulpiti della “promozione della cultura della legalità”. E qui molte volte casca l’asino. Può un politico con ruoli istituzionali parlare di legalità se egli stesso è protagonista di vicende illegali? Se egli stesso manipola concorsi pubblici, raccomanda incapaci nei posti chiave, accumula consenso con metodi molto discutibili? Può un magistrato parlare di legalità se egli stesso non applica la legge? Se egli stesso manipola fascicoli giudiziari o favorisce qualcuno a danno di qualcun altro? Non direi. Tuttavia il problema non riguarda soltanto i singoli esponenti delle istituzioni, quanto le istituzioni nella loro funzione generale. La credibilità è un requisito fondamentale. Può un sistema giudiziario fondato sulla casta, che agisce nel quadro di reciproche coperture tra giudici, pubblici ministeri, avvocati, cancellieri, essere credibile e affidabile? Può un sistema politico fondato sull’autoreferenzialità, continuamente esposto a fenomeni corruttivi, ossessionato dal consenso a tutti i costi, essere credibile? Può essere credibile un sistema politico che usa le emergenze, i bisogni, la disperazione della gente come se fossero il bancomat del consenso? Può educarmi alla legalità una pubblica amministrazione che mi costringe a strade tortuose e “illegali” affinché io possa affermare un mio diritto?
Ecco, questa storia della legalità e della cultura della legalità forse ha un po’ stancato. Troppo esposta a lunghi periodi di retorica inconcludente. Il vero nodo invece è il senso di giustizia, formare le coscienze al senso di giustizia potrebbe essere la strada che ci libera dal pantano della retorica sulla legalità. La cultura della giustizia: giustizia sociale, giustizia del bene, giustizia implicita nei valori della solidarietà, del rispetto dei diritti degli altri e che – ripeto – ci aiutano ad agire secondo bontà, verità e a rendere appunto giustizia.
Falcone e Borsellino amavano la giustizia, non solo nel senso scontato di rispetto della legge, ma nel significato profondo che la distingue dal male. La mafia è ingiusta perché compie azioni che nulla hanno a che fare con il bene, con il rispetto dei diritti degli altri. Perché rappresenta una cultura del male, perché è un sistema predatorio totalizzante, perché uccide, minaccia e si fa Stato. E’ una piovra che mette il sonnifero alla vita democratica. Questi due grandi magistrati nel loro lavoro sono stati spesso frenati, ostacolati, criticati dal sistema politico e giudiziario, grazie anche all’uso strumentale del principio di legalità. Falcone e Borsellino dovevano fermare l’ingiustizia mafiosa e aprire spazi enormi per l’affermazione della Giustizia, non solo quella giudiziaria, ma quella implicita nell’origine della parola latina iustum, che significa “giusto”. La loro intima passione, senza la quale non avrebbero fatto quello che hanno fatto, era quella di rendere giustizia, nel quadro di una virtù squisitamente sociale. Le norme, le procedure, le gerarchie di allora rappresentavano la legalità e quella legalità non sempre ha aiutato i due magistrati. Quella legalità nel tempo e grazie a loro è cambiata, perché la legalità è relativa. Il punto è che la nozione di giustizia è stata estromessa, almeno in teoria, dal campo della “scienza del diritto”. Si continua a non capire che esiste una questione della giustizia isolata, allontanata, dalla sfera giuridica.
La giustizia, rendere giustizia, essere giusti, lottare contro le ingiustizie piccole e grandi, combattere il male per affermare il bene, rispettare i diritti delle persone, sono questi i principi laici che andrebbero radicati in tutte le istituzioni politiche, giudiziarie, culturali. E’ l’unico modo per ricordare degnamente Falcone e Borsellino, i ragazzi della scorta e tutti i morti per la giustizia. Chiunque abbia letto le storie, le biografie di questi uomini e donne, chiunque abbia ascoltato le loro parole nei momenti più drammatici, sa che non erano banalmente tutori e difensori della legalità, ma erano difensori e promotori di giustizia, erano dei giusti. Ecco, promuovere la cultura dei giusti, di coloro che agiscono per rendere giustizia, è prioritario in questi tempi di sonnambulismo sociale e di ipocrisia delle istituzioni.