Dalla festa ai lavoratori alla liberazione dal lavoro

1 maggio 2024 | 12:07
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Dalla festa ai lavoratori alla liberazione dal lavoro

Piena automazione, riduzione della settimana lavorativa, reddito base universale, rifiuto dell’ideologia lavoristica. La Stellantis a Melfi ci racconta la verità su un futuro da reinventare

Quasi ogni primo maggio torniamo sul tema del lavoro. Lo facciamo dal 2017. Scrivendo più o meno le stesse cose. E dunque anche questa volta rilanciamo le questioni dal nostro punto di vista che è lo stesso di tanti autorevoli autori, accademici, sociologi, economisti e politologi. Inascoltati. L’argomento è complesso e richiede libri non articoli. Tuttavia, c’è chi i libri li ha scritti e sarebbe utile leggerli. Nel nostro piccolo ecco l’ennesima trattazione sintetica e parziale di un tema epocale.

C’è la storia di Giovanni, che lavora in una miniera, otto ore al giorno e turni di notte. “Fisicamente ti annienta questo lavoro. Tra lavoro e sonno, mi restano poche ore per vivere la mia famiglia, i miei amici, i miei hobby, le mie passioni. Avrei voluto fare il chitarrista e guadagnarmi da vivere suonando nei locali, ma non è andata così. Comunque posso dire di essere fortunato: io un lavoro ce l’ho, il pane non mi manca.”. C’è la storia di Anna, che lavora in una fabbrica che produce mine anti uomo e dispositivi per carri armati. Otto ore al giorno e turni di notte, alla catena di montaggio. “L’angoscia di produrre strumenti di morte, spesso mi assale nel sonno. Quando alla tv fanno vedere scene di guerra, bambini morti e feriti, cambio canale. Poi penso che se quel lavoro non lo faccio io, lo fa qualcun altro. E’ un lavoro e basta. E sono fortunata.” C’è la storia di Salvatore, ex tossicodipendente, ex detenuto, che lavora, grazie ad un progetto di inserimento del Comune, nei vespasiani, pulisce i cessi. Poche ore al giorno, quanto basta per sopravvivere. “Dicono che così riacquisto dignità, vorrei vedere loro a pulire i cessi. Comunque è meglio di niente.” C’è la storia di Francesco, che lavora all’Ilva e di Antonio che lavora all’Eni di Viggiano. Tutti e due avrebbero preferito un altro lavoro o meglio un’attività che nulla avesse a che fare con il salario, la subordinazione e il profitto dei proprietari dell’azienda.

Il lavoro salariato è un diritto o un dovere?

Storie emblematiche per farsi una domanda: il lavoro è un diritto o un dovere? Nella genesi 3.19 leggiamo: “Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane”. Da qui la semplificazione culturale, sopravvissuta fino ai giorni nostri, per cui “se non lavori non mangi”. Lavorare è dunque un dovere, una punizione, e allora perché nel tempo è diventato un diritto? “Il lavoro, notava George Simmel, è innanzitutto fatica, molestia e difficoltà; di modo che, quando il lavoro non è tutto ciò, si suole mettere in evidenza che non si tratta di vero lavoro”. Ecco il lavoro salariato. Ancora “tutelato” e difeso come diritto che si trasforma sempre più in un dovere di schiavitù. Non a caso oggi, in tutto il mondo, soltanto il 15% circa di persone ritiene interessante il proprio lavoro. Chiedetelo ai lavoratori dell’indotto a Tempa Rossa o a Viggiano, chiedete loro come vengono trattati. Chiedetelo a chi è costretto a restituire una parte del salario ai titolari dell’azienda. Chiedetelo a chi si ammala di lavoro e a chi muore per lavoro.

Potremmo quindi affermare che quello raccontato nelle storie è lavoro vero. E se lavoro vero è, l’unico diritto che possiamo scorgere in quei racconti è “il diritto di mangiare” che, però, deriva da un dovere: il dovere di lavorare. Detto questo, molti sostengono che il diritto al lavoro non va inteso in senso pecuniario, ma come diritto a lavorare, anche per conservare la stima di sé, per mantenere la propria dignità, altrimenti diventerebbe un diritto al reddito. Su questa osservazione ci sarebbe molto da obiettare, ma per sintesi mi chiedo per quale ragione una persona dovrebbe avere il diritto alla dignità e non anche il diritto di mangiare? Ecco la prima domanda. Qui la risposta potrebbe essere semplice. La dignità non è un diritto, è di più: è il valore intrinseco dell’essere vivente umano, dato alla nascita, in quanto partecipante alla comune umanità. Il lavoro dunque, non serve a dare dignità. Dovremmo forse pensare che un uomo o una donna che non hanno mai lavorato, per scelta, o per necessità, sono privi di dignità? Vorremmo forse dire che un ragazzo con la sindrome di down acquista, o completa, il suo valore intrinseco di essere umano soltanto quando comincia a friggere le patatine da McDonald’s?

Dunque in un’economia completamente automatizzata che fine fa il lavoro salariato? Questa domanda sembra un tabù a sinistra e nel sindacato. Le rivendicazioni non cambiano da 50 anni mentre il mondo del capitale si muove in direzione opposta: profitti, profitti e profitti. Sappiamo di certo che le tecnologie potranno produrre più ricchezza e che il tema politico e i nuovi conflitti riguarderanno la distribuzione di quelle ricchezze.

Dal lavoro umano all’algoritmo

Che fine hanno fatto i bigliettai? Nelle stazioni ferroviarie le biglietterie self-service hanno quasi sostituito i bigliettai umani. La stessa cosa accade negli aeroporti, ai caselli autostradali. Una macchinetta alla stazione Termini può emettere fino a 500 biglietti al giorno con un costo, in termini di manutenzione, di circa la metà di un bigliettaio umano in turno che riesce a emettere non più di 200 biglietti al giorno. Che fine faranno i bigliettai? La stessa fine dei benzinai e dei centralinisti. La stessa fine degli addetti alla logistica nelle aziende come Amazon: sostituiti dai robot. La tendenza tutta in discesa, riguarda al momento, il settore automotive, la grande distribuzione e, soprattutto, la logistica e i trasporti. Gli algoritmi avanzano anche in campo medico, nelle professioni intellettuali, nel giornalismo, nella produzione del cibo. Oggi abbiamo la segretaria Alexa, domani avremo anche l’avvocato e il medico robot. Un tempo se perdevi il lavoro nella manifattura per causa di un telaio meccanico, ne trovavi un altro nei servizi, o nei trasporti. Oggi non è più così. Se perdi il lavoro in banca per colpa dello sportello automatico, non c’è altra possibilità. Se perdi il lavoro in fabbrica, per causa dell’automazione, vedrai il futuro colorato di nero. Salta la mediazione del lavoro umano tra le macchine e la produzione. Bisogna fermare il progresso tecnologico? Impossibile. Inutile. Allora? Il dibattito sul lavoro rimane fermo su vecchi schemi lavoristici del ventesimo secolo. Questo è il primo problema. Lamentarsi del fatto che l’automazione toglie spazi al lavoro umano, equivale a non affrontare il problema. Peggio se qualcuno propone di fermare i robot per restituire il posto al lavoratore umano. Sarebbe una tragedia. A lamentarsi sono gli stessi che saltano di gioia per i voli last-minute di Expedia, per gli acquisti su Amazon, per i corsi universitari online, per la musica scaricata gratis da internet. La tecnologia ci consente di produrre di più con meno “risorse” umane. Questa è una tragedia? No, questa è una fortuna. La politica e il sindacato devono porsi il problema da altri punti di vista.

Finché si è in tempo occorre pensare a una società libera dal lavoro salariato per come lo abbiamo conosciuto negli ultimi due secoli e fino ad oggi. E’ questa la vera battaglia del secolo: lunga, faticosa, coraggiosa. Piena automazione; riduzione della settimana lavorativa; reddito base universale; rifiuto dell’ideologia lavoristica. Utopia? Basta fare attenzione a quanto accade intorno a noi per capire che si tratta di un’utopia necessaria. La Stellantis a Melfi vi dice qualcosa? Purtroppo, a 24 anni dall’inizio del nuovo secolo questo argomento resta un tabù nella politica, tra gli economisti e anche tra i salariati, i precari e i disoccupati. Nessuno è pronto a reinventare il futuro. La Storia cammina e in molti, compresa la sinistra riformista e moderata e certo sindacalismo impotente, anziché orientarla, la inseguono senza raggiungerla.