Basilicata. Spopolamento e mito del buon villaggio

18 aprile 2024 | 16:15
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Basilicata. Spopolamento e mito del buon villaggio

La Cultura può fermare la lenta agonia dei piccoli paesi lucani

Con il mito del buon villaggio parafrasiamo quello del buon selvaggio. L’idea per cui all’origine i piccoli paesi erano comunità vivibili, pacifiche, solidali, genuine. Insomma il borgo era buona cultura, buona vita e che per causa del progresso è diventato luogo di abbandono, di fuga, di atavica esistenza, di arretratezza. Allora, dicono in molti, bisogna ripopolarli, ridargli vitalità: non è giusto che muoiano. Non è utile lasciarli al loro destino. Arrivano le case a 1 euro, il turismo delle radici, il turismo emozionale, la riscoperta di archetipi antropologici, i riti, la buona alimentazione, e così via. Tutto quanto nell’arco di una settimana, un mese, d’estate o a primavera o quando vi pare. Tutti a godere del paesaggio, delle donne alle prese con le conserve, dei vecchi contadini con i loro racconti, della gente in fila alla processione. La banda musicale e le luminarie, i fuochi d’artificio e in ultimo gli attrattori e i mega attrattori. Le sagre di tutto di più.  E poi? Nel cuore del borgo impianti eolici e fotovoltaici. Nel cuore del borgo si accomodano industrie estrattive, cannoni che si stagliano in cielo e sputano fumo in faccia al sole e alle nuvole. Code di automobili e veicoli addossati all’ingresso del villaggio. Gente stressata che fugge dalle fatiche quotidiane dei luoghi del “progresso”. Tutti a guardare quel paese come fosse un alieno smarrito nella modernità. Un raro esempio di originale estraneità. Eppure, l’alieno è quell’impianto mostruoso di torri d’acciaio che insulta la terra che lo ospita. Estraneo è quel fumo che fa tossire e ammalare storie e culture.

I piccoli paesi diventano la camera di compensazione del logorio della vita digitale, lavoristica, prestazionale. Diventano il riposo dopo la corsa verso traguardi insignificanti e sempre irraggiungibili. Diventano l’ultima spiaggia di un turismo insensato, predatorio, ignorante, grossolano, ineducato. Il turismo, questa parola magica che risolve ogni cosa non è altro che un modo per accelerare l’agonia del borgo. Il paese diventa un prodotto commerciale, un chiosco aperto al consumo di passaggio.

E nessuno impara nulla. Nessuno impara a leggere quei selciati scomposti, quelle finestre socchiuse, quelle campane mute. Nessuno impara quella lingua millenaria scolpita nella semantica delle radici.  Nessuno vede la rassegnazione alla solitudine nei volti dei vecchi ogni giorno in attesa della fine. Nessuno capisce la rabbia del destino sulle lacrime di gioia di chi ritorna per non restare.

Oggi dobbiamo immaginare il paese come un luogo-attore di un dramma amletico che rappresenta la tragedia dell’essere. Un luogo acentrico che si interroga sul senso. Un borgo che invita a riflettere sul modello di società, sul potere, sull’essere in relazione tra e con il resto del mondo. Invita a riflettere sull’angoscia per i mutamenti, sulla precarietà dell’esistenza, sull’evacuazione violenta dei valori, sulla diaspora del pensiero.  Perché il paese è un gigantesco luogo di saperi, di storia, di simboli, di vite, ancora in movimento. Non è organetto, vino e salsiccia. Eppure, sembra un luogo condannato a vivere il tramonto dei significati che l’hanno fondato. Grazie al turismo fatuo. É questo che dobbiamo imparare.

Un paese possiamo anche immaginarlo come un borgo che vive, anzi sopravvive, fuori tempo, magari non fuori dal tempo, ma in un tempo “altro”. Ed è quel tempo altro che ci stimola a cercare nuovi significati di umanità. Un tempo futuro che appartiene a chi lo vivrà, di cui non conosciamo il destino. Nella storia del borgo e delle vite che lo hanno attraversato e lo attraversano possiamo imparare a connettere il tempo del non più e del non ancora, e fare dell’incertezza materia prima del dubbio. E così si impara a dare  valore alle domande più che alle risposte.

E allora? Che i paesi siano luoghi di arte e cultura, non di coriandoli e carne alla brace. Siano soprattutto luoghi di produzione di teatro, di musica, di cinema, di letteratura, di pittura e scultura, di canto, di poesia e di filosofia. Che siano luoghi appunto di bellezza e non di baldoria. Occorrono sensibilità, coraggio, creatività, che a molti giovani artisti e creativi non mancano, e soprattutto risorse economiche. Le cose serie non si fanno con gli spiccioli. La cultura può contribuire a frenare o rallentare lo spopolamento più di quanto possano fare le chiacchiere sulla fuga dei cervelli.