Beneficenza e diritti: il mito della benevolenza nella società delle ingiustizie
A Natale sono tutti più buoni, ma i benefattori sono tutti più furbi
Esistono organizzazioni di beneficenza che nel giorno di Natale offrono il pranzo a decine di migliaia di persone povere. E negli altri giorni dell’anno si adoperano per tenere in piedi mense e ripari per chi non ha da mangiare e nemmeno un posto per dormire. Esistono organizzazioni che ti aiutano a trovare un lavoro, che ti seguono nelle procedure per ottenere un sussidio, che ti proteggono da uomini violenti, che aiutano i bambini vittime di guerre e carestie, e così via. Un bel pezzo di Mondo, vero? Ma quanto è utile tutto questo e quanto è potenzialmente dannoso? A parte la beneficenza a scopo di marketing, spesso molto simile a una truffa, qui trattiamo l’argomento da un’angolazione più politica e culturale.
Il dono tendenzialmente crea dipendenza nei confronti del benefattore. Avvertire l’obbligo della gratitudine è già di per se, per il destinatario, una forma di dipendenza, soprattutto quando non ci sono le condizioni per restituire in qualche modo il beneficio ricevuto. E allora l’unico modo è la riconoscenza, riconoscere il ruolo del benefattore instaurando una relazione di dipendenza. Su questo argomento il dibattito è aperto dai tempi di Seneca. Tuttavia, oggi più che mai la questione è politica e riguarda sia la democrazia sia le trasformazioni sociali nella civiltà occidentale.
Le grandi organizzazioni filantropiche nate da ispirazioni religiose e inquadrate nella dimensione della misericordia e della carità rischiano di fare da stampella alle storture del sistema neoliberista. I “produttori” di povertà e di emarginazione, grazie all’impegno di queste organizzazioni godono del favore della beneficenza nella misura in cui il dono fa da disinnesco delle potenzialità di ribellione di larghe masse di poveri. Non solo, nell’atto di donare scompaiono le domande fondamentali, travolte dalla dimensione emotiva e dalla cifra dell’emergenza, che avrebbero la funzione di innescare il detonatore della realtà: Perché esistono i poveri? Di chi è la responsabilità, da cosa nascono la povertà, le disuguagliane e l’ingiustizia sociale? Come superare tutto questo? Queste domande sono un tabù. Ed è dal tentativo di rispondere a queste domande che nasce una qualche prospettiva. L’idea di come evitare che milioni di donne, uomini, bambini soffrano condizioni di estrema indigenza non nasce dalla beneficenza, ma dalla risposta politica a quelle domande. Certa filantropia, invece, risponde a bisogni che non dovrebbero esistere, perché in realtà si tratta di diritti che gli Stati, la politica e l’economia avrebbero l’obbligo di garantire.
Infatti, osserva Emma Saunders-Hastings, docente di scienze politiche alla Ohio State University e autrice del libro Private Virtues, Public Vices: Philanthropy and Democratic Equality, “è un fatto discutibile che le cose che sono dovute ai beneficiari per ragioni di giustizia siano fornite (esclusivamente) attraverso la beneficenza discrezionale piuttosto che attraverso i diritti politici” (ilpost.it, 2022).
Saunders-Hastings si riferisce alle grandi organizzazioni filantropiche statunitensi, ma è evidente che in Europa e in Italia, la piega è la stessa. Alcune organizzazioni filantropiche nei fatti adottano forme di violenza simbolica. Vale a dire, in base al concetto introdotto da Pierre Bourdieu, “una violenza esercitata non con la diretta azione fisica, ma con l’imposizione di una visione del mondo, dei ruoli sociali, delle categorie cognitive, delle strutture mentali attraverso cui viene percepito e pensato il mondo da parte di soggetti dominanti verso soggetti dominati”. Si tratta dunque di una violenza indolore, seduttiva, esercitata con il consenso inconsapevole di chi la subisce e che rinforza relazioni di subordinazione.
Sarebbe preferibile, e direi necessario, che “la filantropia non intervenisse in attività che dovrebbero essere finanziate da un governo democratico”, per esempio nelle attività di contrasto alla povertà che dovrebbero essere appannaggio dei governi. “Importante è che non sia apertamente consentito alle persone ricche di decidere le politiche.” Importante, aggiungo, che le donazioni provenienti dalla società civile non siano percepite dalla stessa società civile come la soluzione ai problemi o come sostegno ai “bisognosi”. E questo perché certi problemi devono essere risolti dai governi e i bisognosi sono, al contrario, depositari di diritti e non di bisogni.
Tuttavia, ripeto, la questione va affrontata anche sul lato dei beneficiari i quali, continuamente sottoposti agli aiuti per la soddisfazione delle necessità primarie, perdono, inconsapevolmente, la speranza di diventare soggetti politici nel quadro di una prospettiva di superamento delle ingiustizie e delle disuguaglianze.