Il Sud, i neoborbonici e Aldo Cazzullo
“Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”
Oggi la rubrica “Risponde Aldo Cazzullo del Corriere della Sera” titola: “Smontare il mito neoborbonico non è parlar male del Sud”. Sorrido e penso: vuoi vedere che il buon Aldo abbia risposto al mio articolo? ‘Manco pa’ capa’, come direbbe Ferdinando II di Borbone, e siccome non credo alle coincidenze ritengo che sia una risposta indiretta al mio pezzo, inviatogli via mail, e siccome non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire provo a alzare il tono di un decibel. Hai visto mai?
Ovviamente Cazzullo non argomenta nel merito se non con la riproposizione del fatto che i Borbone fossero una dinastia straniera, anche se furono sul trono di Napoli dal 1735 e, ribadisco, parlassero napoletano e gli atti del Regno Delle due Sicilie fossero in italiano. Neanche un accenno a quella che per me, più della polemica sui Borbone, è la questione centrale ossia che, numeri alla mano come riporto nel mio pezzo precedente, il divario Nord Sud sia peggiorato da quando i Borbone lasciarono Napoli il 6 settembre 1860 di oltre 30 punti avendo come riferimento il PIL pro capite. Ma, trarne le logiche conclusioni per Cazzullo è troppo difficile.
Ma perché la storiografia ufficiale e il mainstream del pensiero unico si accanisce contro i Borbone? Perché la mancanza di equanimità del giudizio storico sui Borbone ha a cha fare con la pubblicistica anti meridionale?
Dobbiamo risalire al 26 settembre 1850 quando Lord Gladstone arrivò a Napoli, ufficialmente per la convalescenza della figlia. L’Unità tra il Piemonte e la Lombardia era chiara da motivare. La Lombardia, come il Veneto, era sotto il dominio austriaco che aveva un’altra lingua e appariva esotico rispetto ai luoghi e quindi la retorica risorgimentale poteva puntare sull’italianità e sull’appartenenza allo stesso popolo. “Non fia loco ove sorgan barriere Tra l’Italia e l’Italia, mai più! L’han giurato: altri forti a quel giuro Rispondean da fraterne contrade, …”, la retorica aveva solidi appigli e non aveva bisogno d’altro che non l’anelito della ricongiunzione delle italiche genti perché l’Italia era: “Una d’arme, di lingua, d’altare, Di memorie, di sangue e di cor.” E lo straniero era malvagio non in quanto tale ma perché straniero. La Nazione italica aveva bisogno di un unico Stato.
Ma le stesse argomentazioni non potevano valere per giustificare l’annessione del Regno delle Due Sicilie alla nuova Italia sotto la corona dei Savoia. I Borbone erano una dinastia naturalizzata napoletana, checché ne dica Cazzulo, al contrario dei Savoia che hanno le radici in Francia e che parlavano francese e non italiano, come Cavour del resto. Tra l’altro essendo il Regno il più grande d’Italia in un primo momento era proprio stato visto come il regno unificatore d’Italia, tanto che Giuseppe Verdi compose per Ferdinando II l’inno La Patria: “Bella Patria del sangue versato se fumanti rosseggian le impronte non più spine ti strazian la fronte il martirio la palma fruttò Viva il Re! Viva il Re! Viva il Re!”
I Borbone come regno del male: una necessità per giustificare l’invasione
Ecco quindi la necessità piemontese e inglese di dipingere il Regno come l’impero del male e ci pensò Lord Gladstone che scrisse delle corrispondenze da Napoli sullo stato della giustizia e delle prigioni di Napoli descritte come l’anticamera dell’inferno. Per quanto fosse cruda la descrizione delle condizioni delle carceri napoletane in cui fu rinchiuso Poerio nulla aveva a che vedere con Fenestrelle, pur nella versione edulcorata di Barbero nel libro I prigionieri dei Savoia, o quelle descritte da Silvio Pellico prima ai Piombi di Venezia, poi nel carcere dello Spielberg. Essere in uno dei qualsiasi penitenziari europei dell’epoca non era una passeggiata di salute, non solo a Napoli.
Che poi quella Borbone fosse una dinastia feroce tanto che “I cannoni dei Borbone non erano puntati verso il mare ma verso la città”, fa sorridere. Nessuno storico può documentare una ferocia nelle repressioni del 1799, del 1821 (chissà perché tutti dimenticano l’esperienza del parlamento napoletano del ’21), del 1848 neanche lontanamente paragonabile a quelle fatte da Vittorio Emanuele II tra giovedì 5 aprile e mercoledì 11 aprile 1849 a Genova contro la neonata repubblica ligure o quella successiva al brigantaggio. Per la cronaca mentre Genova veniva stuprata e coperta di sangue dalle truppe piemontesi e dai bersaglieri Francesco De Santis insegnava alla Nunziatella dove propagandava i valori unitari ai giovani allievi ufficiali e non fu per questo condannato a morte ma all’esilio.
Cazzullo fa cherry picking con la storia
Cazzullo ricorda il referendum del 1946, dimenticando il plebiscito del 21 ottobre 1860, quando con le truppe piemontesi già a Napoli e con la città in mano alla camorra a seguito della nomina del camorrista De Crescenzo a capo della polizia fatta il 6 settembre 1860 da Liborio Romano, i napoletani furono condotti a suon di mazzate ad esprimersi al plebiscito. Forse temevano nuove mazzate nel 1946, unico referendum che sembra ricordare Cazzullo. D’altronde come per la cronaca così anche per la storia i narratori di sistema fanno cherry picking, scartando quello che non fa comodo. Fatto è che dopo l’unità d’Italia ci fu la ribellione dei poveri contadini lucani detta brigantaggio.
Cazzullo ricorda le vittime del nazismo pari a circa 412.000 italiani che rapportati alla popolazione dell’epoca rappresenta circa l’1% della popolazione. Secondo una delle ricostruzioni più conservative, Franco Molfese, le vittime del brigantaggio furono 13.500 che, rispetto a una popolazione interessata dal fenomeno di 600.000 abitanti fa il 2,25% della popolazione: il doppio. Come sostiene Marc Bloch nel suo bellissimo libro “Apologia della storia”, ancora più importanti dei fatti della storia sono i dati.
La carneficina andava in qualche modo giustificata.
Al seguito delle truppe fu assoldato Cesare Lombroso, teorico della antropologia criminale. Questo signore a cui i piemontesi, della pubblica università statale, hanno dedicato un museo, tagliava le teste ai briganti e ne misurava i lobi, le arcate e tutte le distanze craniche. Concluse che i briganti fossero per conformazione portati a delinquere. Tesi rafforzata dai fotografi che al seguito dell’esercito denudavano i briganti morti, li sporcavano con terra e fango e li fotografavano nelle condizioni peggiori possibili.
Il tutto ignorando le ragioni sociali della rivolta e attribuendo il tutto a: “ma tra la borghesia meridionale che difendeva l’unità e l’alleanza reazionaria tra briganti in senso tecnico e nostalgici del potere temporale del clero e dell’Ancien Régime delle forche e dell’assolutismo”. Niente di più falso caro Cazzullo. La verità è che il latifondo e la nobiltà terriera, in un primo momento avversa all’Unità, saldò i propri interessi con Cavour, in funzione antigaribaldina, e la borghesia del Nord impedendo la quotizzazione delle terre promesse da Garibaldi ai contadini per 90 anni. Quello unitario fu da subito uno stato reazionario come dimostrano le vicende di Milano con Bava Beccaris o quelle di Pietrarsa. Da come fu fatta l’unità d’Italia deriva la natura fascista dell’Italia Unita.
La pubblicistica antiborbone e anti briganti si estese sempre più a tutto il sud e a tutti i meridionali e tutte le negatività del Paese sono state attribuite al Sud.
Per questo è importante ristabilire un minimo di verità storica su quel periodo e contrastare la pubblicistica antimeridionale che vuole narrare solo il peggio del regno delle Due Sicilie. Un esempio. Quante volte avete sentito parlare di burocrazia borbonica? Eppure non c’è nulla di più falso. Il 17 febbraio 1861 le leggi del Regno di Sardegna, che erano frutto del lavoro di una commissione congiunta di piemontesi e lombardi qualche anno prima, fu applicata a tutto il resto del Paese, compreso il Regno delle Due Sicilie appena annesso. Nulla a che fare con i Borbone e la sua burocrazia.
Ma la pubblicistica antimeridionale svolge ancora la sua funzione. Serve per giustificare con ragioni storiche e antropologiche il divario in costante aumento tra Nord e Sud d’Italia. Per questo è necessario assumere una visione più oggettiva dei meriti e demeriti di tutti i protagonisti del Risorgimento.
Carlo Levi nel suo libro “Cristo si è fermato ad Eboli” parla del complesso di inferiorità dei meridionali: questo è il peggior frutto di 162 anni di pubblicistica antimeridionale. In ogni caso se la dinastia Borbone fosse adeguata o no era un problema dei cittadini del Regno delle Due Sicilie e non certamente un problema dei piemontesi che, grazie a questa pubblicistica che nascondeva interessi più prosaici, si sentì in diritto di invadere prima lo Stato Pontificio, poi il Regno delle Due Sicilie in barba a tutti i trattati internazionali. Ci fu un invaso e un invasore, caro Cazzullo. Come in Ucraina, e questo è inconfutabile.
In ogni caso personalmente ritengo che l’unità d’Italia andava fatta, ma la ferocia piemontese con cui fu realizzata causa problemi ancora oggi e mettere tutto sotto il tappeto di una stucchevole narrazione del Risorgimento come successione di atti eroici, alla Cazzullo diciamo, non aiuta a comprendere problemi e soluzioni.