Edipo in fuga nella poesia di Emilio Nigro

12 novembre 2023 | 09:36
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Edipo in fuga nella poesia di Emilio Nigro
Emilio Nigro

Emilio Nigro è un poeta e critico di teatro. Dopo molte esperienze nella scrittura, è approdato alla collana Icone di Les Flaneurs con un testo, Edipo in fuga (Les Flaneurs Edizioni, 2022), che ha presto incontrato il favore di molti lettori

Emilio Nigro è un poeta e critico di teatro. Dopo molte esperienze nella scrittura, è approdato alla collana Icone di Les Flaneurs con un testo, Edipo in fuga (Les Flaneurs Edizioni, 2022), che ha presto incontrato il favore di molti lettori. Edipo in fuga è una silloge che raccoglie versi d’esilio, sulla necessità di allontanarsi per sopravvivere. La scrittura di Nigro consiste in segni che testimoniano il sotterraneo, l’incubo. Edipo è straniero, ovunque si trovi.  

Chi è l’Edipo tratteggiato da Emilio Nigro? Perché fugge? Da chi? 

Il mito rappresenta da sempre un archetipo per identificare l’uomo e la sua geografia morale, o meglio ancora quella interiore e come questa natura si relaziona ai simili e al circostante. Potrei definirlo un pretesto letterario per identificare universalmente l’uomo contemporaneo post novecentesco, frammentato nella società del virtuale e dell’affermazione performativa. In realtà, l’uomo somiglia a se stesso pur mutando le condizioni di costume e sociali in cui agisce. La poesia assurge in maniera subliminale, inconscia, a strumento di immedesimazione collettiva. Non definendo, ma muovendo stati di coscienza stretti da codificazioni convenzionali del vivere civile, stati emotivi, emozionali, scuotendo sensibilità assopite. E questa universalità raccoglie situazioni esperienziali comuni nell’esistenza individuale. Il poeta si fa portavoce dello svelamento dell’essenza delle cose mediante la parola sonora. 

Edipo è un eroe tragico, non si cinge di gloria secondo la tradizione, non è artefice di vittoria collettiva al pari dei suoi illustri colleghi guerrieri, liberatori, dominatori, impegnati nella salvezza popolare. Edipo è un sacrificato, un medium per cui il vinto potrebbe rimediare rivalsa, drizzandosi dalla propria condizione curva a cui lo piega il destino. Ed è dal destino che fugge Edipo, l’uomo, da un destino crudele inconsapevolmente, dalla nascita, per cui diviene peccatore innocentemente. Il senso di vergogna lo induce alla punizione di sé, antropologicamente è una specie di salvatore dell’umanità, qualcuno che porta l’esempio. Accecandosi, vede. Questo paradosso, di cui è vittima carnale, a spiegare cosa è veramente “vedere”, cosa significa acquisire piena vista. Fondamentalmente Edipo è un uomo portatore di verità. Metafora di un’affermazione sacrificale (della verità) a discapito della menzogna, della sopraffazione, dell’interesse non al senso di prossimità verso l’altro, ma di prevaricazione. E non è l’azione eroica, ripeto, a salvare. Ma il sacrificio. L’eliminazione del tragos per cui ciò che deve si compie per approdare alla giustizia. 

Per te cosa rappresenta la poesia? Qual è il tuo rapporto con il processo di ispirazione e scrittura? 

La poesia rappresenta per associazione intellettuale, simbolica, per induzione, un potente mezzo di verità. Prima di tutto personale. Uno strumento auditivo di ascolto personale, di amplificazione intima, interiore, di sé a se stesso. Al contrario del teatro, che è strumento fonetico collettivo, per masse, la poesia ha un rapporto a tu per tu con il lettore, anche in un contesto di esposizione vocale plateale. Intima una relazione duale, stretta, immediata. Porta sollievo o stridore, emozione o dissonanza, comunque interpella interiormente, impone un corpo a corpo. 

La poesia ha senso se è riscontrabile. Se non è effimera o fine a sé stessa, o peggio esercizio di stile o vanità. Se è riscontrabile in un senso oggettivo non esclusivamente contestualizzabile in un reale, in un materico, può essere intimo, emozionale, invisibile ma riscontrabile, in un certo senso tangibile. Deve cioè essere canto di cose umane, e di come queste frizionano col mondo.  

La poesia è la ferita divenuta collettiva. Quando la voce dell’uno dice per la moltitudine. È più soddisfa il suo compito quando più è prismatica, non finita, a lasciare libertà di entrata, di uscita, di interpretazione, di contatto. Attualmente, a causa anche della supremazia dei “social”, la fruizione poetica è bulimica. Che ben venga una diffusione capillare e abbondante, il rischio però è che si faccia una scorpacciata di niente spacciato per letteratura, per arte. La poesia necessita di un pubblico sì, ma una di relazione silente, tradizionale. Un approccio rituale, non da grafomania. La produzione eccessiva minimizza il contenuto e il linguaggio a vantaggio di una produzione svelta, una massiva produzione per apparenza, per “postare” qualcosa.  

Le logiche di mercato – per cui la poesia è relegata ai margini per la scarsa commerciabilità del verso – impongono il personaggio, il mainstream, chi riesce a vendere molto perché in ribalta grazie a potenti mezzi di “trasporto” organizzato: presenzialismo, management, propaganda, denaro. Un po’ come le campagne elettorali politiche, chi ha più mezzi economici e promozionali raccoglie utenti. Ecco, si rischia di minimizzare il lettore ad utente, a consumatore anche per la poesia. A fronte di tutto questo più che mai la poesia rappresenta l’affermazione del vero, dell’autentico, del canto di sommossa, del suono di chi non può fare voce, di chi è diverso, di chi non partecipa ai giochi di società del merito e del più forte, ma sente, rabbrividisce, arrossisce, si incanta di poco.  

Il mio processo creativo si realizza nel cedere il passo alla fascinazione di questo poco, di questo niente. Non pianificato, non programmato né strategico. Qualcosa, qualcuno, muove dentro l’inquietudine e la parola si fa suono. Certo, non inconsapevolmente. La lettura, l’affinazione tecnica per pratica e per frequentazione contestuale, leviga questo suono da impurità, da stridori, ma l’atto creativo è puro “sentire”, “vedere”. Riecheggiano nella forma suoni più familiari, figli di un alfabeto mediterraneo e dell’aggrovigliarsi sofisticato di semiotiche e semantiche di matrice ellenistica, latina, bizantina. Più semplicemente è il paesaggio interiore ed esteriore che prende forma per farsi pane. Per compiersi per mezzo di qualcuno che si ferma mentre gli altri corrono. Il poeta è topicamente un essere diverso. Intendendo proprio nell’agire diversamente alla norma, a ciò che impone il dovere sociale. E, come chiunque è diverso, il poeta è vittima di discriminazione, ma accettato e “santificato” – quando non ipocritamente – per sacrificio. Il poeta è colui che si sacrifica a portare la pietra di Sisifo… 

Mitologia e poesia. Poesia e territorio. Binomi che si intrecciano nei tuoi versi, intrisi di Mediterraneo

Inevitabilmente il mio lessico è sporcato dalle mie origini, dai trascorsi, dalle terre di cui mi porto addosso l’odore, la memoria, e di tutte le scene vissute, quelle soffocate, quelle perse. L’entusiasmo del sentire addosso storie e genti si traduce in uno sfogo dell’anima che canta le storie, gli accaduti, i sentimenti, impressi nel verso a dare immortalità, traccia, resoconto, tradizione. Il mondo è stato da sempre narrato da qualcuno. Affinché l’umanità si specchiasse e si riconoscesse, ne traesse leva per migliorare o semplicemente riflettere, riflettersi. La poesia è una narrazione altra. Potentissima. Un atto politico estremo, nella sua apparente nullità, veicola invece tutta l’essenza dell’ethos in una via breve, un momento condensato, una pienezza immediatamente materializzabile in bellezza. Nutrimento. Per comunità in ascolto.  La copertina del libro

Edipo in fuga