Stupri, violenza, orrore: gli adolescenti vittime e carnefici
Agli episodi raccapriccianti raccontati dai media in questi giorni la politica risponde proponendo pezze punitive e rieducative che curano l’albero, ma non la foresta malata
Diciamolo, e ricordiamolo: i ragazzi non hanno più un nemico. Un nemico ideale in cui trovino una spiegazione le loro domande di senso. Un nemico contro cui sferrare attacchi emotivi e sfogare le crisi esistenziali. Un tempo avevamo il nostro nemico: l’autorità in tutte le sue forme (scuola compresa), i fascisti o i comunisti, la borghesia o il proletariato, il razzismo, l’inquinamento… Anche i nostri genitori, in quanto autorità, erano nostri nemici. E la relazione con loro era una relazione conflittuale nel contesto delle regole proprie del conflitto generazionale. Oggi i genitori sono amici e complici, la scuola è marginale e soccombente. I ragazzi sono stati privati del nemico e quindi della capacità di creare e gestire conflitti.
Vivono in un mondo pornografico, fatto di piacere e violenza, nel quadro di una relazione narcisistica in cui l’Altro scompare. Questi ragazzi sono inerti di fronte alle immagini di violenza che scorrono sul web e nei film, percepiscono l’atto di uccidere, di violentare come una circostanza priva di dolore. E così anche il sentimento d’amore non è più un sentimento ma un surrogato senza problemi emotivi, una piacevole frivolezza, un meccanismo sessuale. “L’Altro è oggettualizzato e guardato di conseguenza come una tra le tante cose da consumare. Lo sguardo si posa sugli esseri umani come se si posasse su degli oggetti” (Chul Han, 2021). E spesso gli oggetti sono le donne adulte o bambine.
Ed è la capacità di gestire il dolore un’altra area critica della vita dei ragazzi. Il dolore inteso come difficoltà, mancanza, ostacolo, fatica, come lato negativo della vita. Ma anche il dolore fisico, psichico, esistenziale. Tutte le forme di dolore sono scomparse, respinte, annullate, indesiderate, invisibili, anche nella vita degli adulti. I ragazzi non fanno esperienza del dolore, la loro vita è invasa da analgesici forniti dagli adulti o in particolare dalla famiglia: soldi, immediata soddisfazione dei desideri, coperture, reti di protezione, complicità. Tutto diventa, in apparenza, più facile, scorrevole. Ed è anche quello che vogliono gli adulti per loro stessi. Vuote gratificazioni attraverso i like, i followers, in una dimensione in cui l’esibizione, l’esposizione, l’eccesso diventano veicoli per esistere. Esisti se ti vedono, se ti fai vedere nella mediazione istantanea degli smartphone. Più esageri, più ti seguono, in un vortice virale che porta alla sconfitta della vita vera e alla morte del pensiero. Siamo alla diaspora del pensiero, disperso e confuso in territori digitali, “derealizzati” in cui anche un fatto reale e raccapricciante – violenza sessuale di gruppo – si trasforma in spettacolo, in un gioco macabro e insieme pornografico. Il pensare ha ceduto il campo al guardare.
“In una società anestetizzata occorrono stimoli sempre più forti perché si abbia il senso di essere vivi. La droga, la violenza e l’orrore diventano degli stimolanti che, in dosi sempre più potenti, riescono ancora a suscitare un’esperienza dell’Io” (Ivan Illich, 2005).
Educare al conflitto, alla gestione delle emozioni, ai sentimenti, alla gestione del dolore, ai pericoli e all’uso del web, sarebbe necessario qui e ora. Fare in modo che la gente capisca l’importanza di ritornare al contatto con la realtà oggi evaporata nei labirinti digitali, sarebbe importante. Ma chi dovrebbe assumere queste responsabilità? E come dovrebbe esercitarle? Sono domande che oggi non hanno una risposta univoca né risolutiva.
La trattazione del fenomeno della violenza in genere, e della violenza sessuale in particolare, della perdita del contatto con la realtà del mondo vero, richiede certo un approccio multidisciplinare: psicologico, psichiatrico, sociologico, pedagogico, ecc. Tuttavia, bisogna ammettere che il contributo delle scienze umane è parziale, insufficiente, a volte socialmente inutile. Tutti, davanti ad un tragico evento di cronaca, diciamo sempre le stesse cose: l’educazione, internet, la scuola, la famiglia, le dipendenze, la cultura maschilista, il disagio e così via. Analisi trite e ritrite e soluzioni destinate a frantumarsi nello scontro con la realtà. Anche perché i decisori politici non ascoltano, non agiscono, non capiscono, o fingono. Passata l’indignazione del momento, concluso lo sfogo mediatico dell’opinione pubblica tutto torna come prima, anzi peggio di prima. Perché? Perché il problema in qualche modo e in diversa misura coinvolge la responsabilità di tutti. Perché la radice è nella realtà di vite e antropologie costruite nel solco dei paradigmi economici, politici e culturali del capitalismo e della sua variante più terribile: il neoliberismo.
Dunque, questi fenomeni vanno politicizzati, inseriti in un pensiero e in un’azione diretti a rovesciare quei paradigmi e a fecondarne di nuovi. In presenza degli orrori a cui abbiamo assistito in questi giorni, la politica si defila e i politici propongono soluzioni che acuiscono i problemi: pezze punitive e rieducative che “curano” l’albero, ma non la foresta malata. La verità è che nessuno saprà che fare fin quando resisterà la convinzione che la vita organizzata secondo i paradigmi del neoliberismo (la foresta malata) è la migliore possibile.