Basilicata. La retorica sullo spopolamento e la mancanza di coraggio

23 agosto 2023 | 18:00
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Basilicata. La retorica sullo spopolamento e la mancanza di coraggio

La contaminazione nella fraternità può salvare paesi ormai trasformati in un nuovo “mito del buon selvaggio”

Non esiste in Italia (neanche nel mondo) una città, una regione, un paese, un territorio che non sia espressione di una storia millenaria. Una storia di intrecci etnici, religiosi, linguistici, di contaminazioni culturali. Molti paesi, che oggi rischiano l’estinzione, sono stati nei secoli antropologicamente dinamici. Hanno vissuto conflitti, “invasioni”, saccheggi, alternati a lunghi momenti di pace, laboriosità, voglia di crescere e costrizioni all’abbandono. Mai fermi. Un tempo relativamente poveri e in altri tempi relativamente ricchi. Mai definitivamente radicalizzati in una bolla di storia, in un’istantanea digitale. Sempre memorizzati in quella foto analogica che è la narrazione della vita che scorre dentro i sentieri della comunità. Paesi in cammino, su pietre e selciati di polvere, verso qualcosa che non si è vista, verso qualcuno che non è mai arrivato. Un cammino a passo sostenuto e anche lento, tremante.  La montagna li ha protetti dall’ignoto e dai “cattivi”, quella stessa montagna che oggi ospita le genti dell’ignoto che arrivarono armati di spade e lance. La stessa montagna che oggi ospita i fuggiaschi di un altro mondo in cerca di una terra promessa. Tutti ospitati nell’antropologia dei luoghi. Popoli armati e disarmati, pacifici e aggressivi. Indigeni e forestieri si sono contaminati a vicenda. E così i luoghi sono cambiati, ma non morti. Oggi siamo l’impasto di mille identità, culture, lingue, costumi.

Tuttavia, da circa un secolo questi paesi sono fermi, bloccati nella loro collocazione stabilita dalla storia quando la storia si è fermata, antropologicamente paralizzata dai paradigmi della cosiddetta modernità. Sono tutti in sosta, in attesa di morire, o di sopravvivere, o di rinascere. E allora? I lucani emigrati e mai tornati, i loro figli, i loro nipoti, non sono più lucani: sono americani, argentini, peruviani, canadesi, australiani. Tuttavia loro, i loro padri e i loro nonni hanno contaminato in qualche modo luoghi e piccole comunità, senza per questo trasformare il Perù in una colonia lucana. Loro si sono lasciati contaminare da quei luoghi e da quelle comunità. Le lingue, le culture, i costumi, il cibo, le arti, la manualità e la creatività dei “forestieri” sono una risorsa per chiunque, purché nel quadro dell’etica civile universale: amore, rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo, fraternità. Non tutto è contaminabile, ma l’umanitarismo lo è sempre. La fraternità non è solo un sentimento, ma è anche e in alcuni casi soprattutto una formidabile prospettiva politica e antropologica di liberazione e di salvezza.

Dunque, i nostri paesi spopolati e impoveriti perché dovrebbero avere paura di gente disarmata che arriva dal mare in cerca di una vita dignitosa? Perché dovrebbero respingere chi potrebbe rianimare luoghi e cambiarli nel quadro di una contaminazione tra esseri umani? Le antropologie non sono velenose anzi, possono rimettere in moto la storia dei paesi fermi e bloccati nell’ormai vecchio paradigma della vecchia modernità.

Occorre una nuova modernità a partire dai paesi fermi e bloccati, ormai divenuti musei in movimento, parchi giochi dell’estate, palchi removibili e destinati a ripetersi. Paesi trasformati in un nuovo “mito del buon selvaggio”. Un Paese di 500 anime non muore, non si distrugge, non perde l’identità (che tra l’altro ha già perso da tempo), se abbraccia 50 anime “forestiere” e con loro mette a fuoco un nuovo orizzonte, un nuovo cammino, rianimandosi in una reciproca contaminazione nella fraternità.  Alcuni di questi paesi hanno già sperimentato positivamente l’abbraccio con gli albanesi, i rumeni, gli ucraini, i polacchi. “Stranieri” che hanno innescato la loro vita in quei luoghi piccoli ma pieni di spazio. Perché in futuro non immaginare l’esistenza di lucani di origini senegalesi, congolesi, somali? Che problema c’è? Sono domande retoriche? Forse sì, ma soltanto per coloro che si ostinano a dare risposte ciniche, egoistiche e ipocrite.