Basilicata, welfare: dalle chiacchiere ai fatti

28 luglio 2023 | 12:21
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Basilicata, welfare: dalle chiacchiere ai fatti

Un Piano per lo sviluppo della qualità, dei diritti e dell’occupazione nei servizi sociali

Vogliono, dicono, combattere la povertà. Vogliono, dicono, promuovere e tutelare i diritti delle persone fragili. Vogliono, dicono, contrastare lo spopolamento e la disoccupazione giovanile. L’unica certezza è che lo dicono, forti dubbi sul fatto che lo vogliano. Perché da anni, in questa regione, ai servizi sociali sono destinate le briciole. Eppure, i servizi sociali, ossia gli interventi socio-educativi e l’assistenza domiciliare, sono uno dei perni del contrasto alla povertà. Sono uno dei settori ad alta intensità lavorativa capaci di garantire, almeno potenzialmente, lavoro giovanile anche ad alta professionalità. Dal 2005 in poi abbiamo assistito a una produzione confusionaria di documenti: linee guida, delibere, determine, proposte e modifiche di legge, applicazione a soggetto delle norme, ambiti territoriali fatti e disfatti e con strutture professionali che ancora navigano a vista. Tutto questo senza una strategia, senza una logica, ma finalizzate a rispondere in modalità “tanto per…” alle sollecitazioni anch’esse confuse del territorio. Il risultato è oggi il caos, servizi di assistenza sociale resi in molti casi inutili dalla frammentazione delle prestazioni.

Saltate le metodologie e le forme di pianificazione indicate nel primo e unico vero Piano sociale regionale, quello del 1999, che anticipò la legge 328/2000 dell’allora ministro Livia Turco. In alternativa il vuoto e, nei casi migliori, l’improvvisazione. I servizi di assistenza domiciliare agli anziani, alle persone con disabilità, i servizi socio-educativi destinati ai bambini e alle loro famiglie, arrancano nella cronica carenza di risorse e di programmazione. Nessuno fino ad oggi ha capito l’importanza di accreditare i gestori non profit di questi servizi. Nessuno ha capito fino ad oggi che assegnare due ore alla settimana di assistenza domiciliare a una persona anziana è una fuffa inutile, ridicola, uno spreco di denaro pubblico. Nessuno ha capito che dai servizi socio-educativi dipende il futuro di migliaia di bambine e bambini.

Nessuno ha capito che il settore dei servizi sociali conserva potenzialità enormi nell’allargamento dei diritti e nell’incremento dell’occupazione. Purtroppo questo settore è alla mercé delle regole di un mercato, pubblico e privato, selvaggio. Un mercato su cui si affacciano con spregiudicatezza finte organizzazioni non profit, finte cooperative sociali, finte organizzazioni di volontariato e anche società for profit che trovano spazio nel far west della gestione pubblica di questi servizi. E non ci attardiamo sulla confusione di ruoli tra imprese sociali, organizzazioni di volontariato, gruppi spontanei di aiuto, spesso controllati da politici locali in una dinamica di reciprocità delle convenienze.

E dunque occorre una programmazione strategica che assuma come centrale l’obiettivo naturale di un servizio sociale: liberare le persone dalle condizioni di bisogno e restituire loro il diritto a vivere una vita dignitosa. Occorrono risorse in grado di allargare la platea dei destinatari dei servizi sociali ma in un quadro di maggiore professionalità degli operatori e di qualificazione delle metodologie e dei percorsi di emancipazione dei destinatari: l’assistente domiciliare non può trasformarsi in badante o in operatore delle pulizie di casa. L’assistente domiciliare, in un contesto multidisciplinare, dovrebbe avere un ruolo e dei compiti che costituiscono un tassello del puzzle di un piano individuale non di assistenza, ma di liberazione della persona destinataria dalle condizioni di vita indesiderate.

Gli assistenti sociali, negli uffici di servizio sociale comunali, non dovrebbero lasciarsi avviluppare dalle logiche burocratiche tipiche di un’amministrazione pubblica, ma dovrebbero coltivare ed esercitare con rigore la loro vocazione professionale. Quello dell’assistente sociale, al pari dell’assistente domiciliare o dell’educatore professionale o dello psicologo, non è un mestiere, è una missione. Ed è su questa missione che si sbanda continuamente, anche per causa di un contesto socio-politico e normativo locale che – ripeto – tendenzialmente spinge ai margini il lavoro di queste figure.

Partendo dalle condizioni critiche del sistema di welfare sociale e dal cattivo funzionamento dei maccanismi che lo sostengono c’è un solo ragionamento sensato da fare: rendere efficaci gli interventi sociali, allargare la platea dei destinatari degli interventi. Dunque più qualità e, insieme, garanzia di servizi sociali a tutte le persone attualmente escluse. Allargare la platea dei destinatari significa incrementare il numero degli operatori, educatori, assistenti domiciliari e quindi far crescere l’occupazione nel settore e superare le condizioni di precarietà dei lavoratori sociali attualmente impegnati nei servizi. All’origine, però, occorrono le risorse necessarie per realizzare il disegno. E quelle ci sono, basta vederle, basta volerle. Tuttavia, è chiaro che le risorse sono necessarie, ma non risolutive senza una vasta riqualificazione di tutto il sistema.

In altre parole, occorre introdurre nell’agenda politica delle istituzioni, nella missione delle organizzazioni di rappresentanza delle imprese sociali e dei sindacati dei lavoratori, una discussione operativa sulla necessità di un “piano per lo sviluppo e l’occupazione nei servizi di welfare sociale”.