Basilicata. Sul fenomeno dello spopolamento Vito Bardi continua a sbagliare

7 luglio 2023 | 16:00
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Basilicata. Sul fenomeno dello spopolamento Vito Bardi continua a sbagliare

Al pari dei suoi predecessori il presidente della Regione non afferra i nodi veri del problema demografico lucano

“Il Rapporto Annuale 2023. La situazione del Paese, presentato stamattina dal presidente dell’Istat, Francesco Maria Chelli, conferma il problema dello spopolamento come centrale nella vita pubblica della Basilicata. Si tratta di un trend iniziato venti anni fa, che apre prospettive drammatiche per i prossimi 20 anni, con la perdita prevista del 30% della forza lavoro. Per questo motivo, in autunno convocheremo gli “Stati generali della natalità” in Basilicata, aperto a tutti, con i contributi delle parti sociali, di esponenti del governo e soprattutto rivolto ai giovani. Lo spopolamento è il principale problema della Basilicata, come abbiamo messo nero su bianco nel “piano strategico regionale” approvato nel 2022, un documento inedito nel suo genere.” Lo scrive il presidente della Basilicata, in una nota inviata alla stampa oggi, 7 luglio 2023.

Intanto, Bardi svela ancora una volta la sua cultura  ben collocata nell’alveo della peggiore variante del capitalismo: il neoliberismo. “Perdita della forza lavoro”, dice. Esclude la perdita di cittadini, di persone. Poi aggiunge che il trend è iniziato 20 anni fa. Perde di vista più di un secolo di esodo costante dei lucani verso terre di speranza. Semmai il trend riguarda la denatalità, non lo spopolamento. Due fenomeni che, seppure in qualche modo correlati, presentano cause ed effetti ben distinti. In più Bardi dimentica di trattare la politica migratoria per recuperare quella che lui chiama “forza lavoro”.  Si veda la precaria situazione dei braccianti extracomunitari.

Quella che lui chiama “forza lavoro”, con una perdita del 30%, noi più correttamente la definiremmo “forza disoccupata”. Magari ci fosse così tanto lavoro da impedire alle persone di emigrare, tanta forza lavoro occupata e ben retribuita che incentivi la natalità. Non è così. E se lo fosse non sarebbe sufficiente.

Nel tanto osannato “piano strategico regionale” è evidente la centralità attribuita al lavoro giovanile come forma di contrasto allo spopolamento. Banalità che serve a coprire l’inadeguatezza di chi quei piani li scrive e di chi li approva.

Lo spopolamento non è un fenomeno metafisico. E’ legato all’abbandono della Basilicata da parte delle persone giovani e in età feconda. Vanno via da qui e, eventualmente, vanno a fare i figli altrove. Ma non vanno via da qui per il solo motivo occupazionale. Le ragioni sono diverse, tra loro legate, e paradossalmente più semplici, ma meno banali. E dunque sono costretto a ripetermi, riprendendo un mio lungo editoriale pubblicato su questo giornale nel gennaio 2020 e replicato in altre sedi e in altre circostanze.

Partiamo da alcuni dati generali. I giovani del Sud emigrano in maggioranza al Nord e i giovani del Nord emigrano in maggioranza all’estero. La Basilicata ha un tasso di disoccupazione tra i più alti e un tasso di occupazione tra i più bassi. E dunque se la ragione fondamentale per cui si emigra è il lavoro, è banale il riscontro con i dati sulla carenza di opportunità occupazionali. O forse no. Perché la Lombardia – regione che registra una forte emigrazione verso l’estero, ha un tasso di disoccupazione tra i più bassi e un tasso di occupazione tra i più alti.

Perché i giovani emigrano dalla Basilicata?

Si lascia la nostra regione “perché non esiste meritocrazia, perché le retribuzioni sono basse rispetto alle professionalità, perché non si trova lavoro se non con l’aiuto di qualche raccomandazione.” Questa è la risposta più comune. In parte è vera, tranne la retorica sulla meritocrazia. Insomma, giovani che studiano si diplomano, si laureano fanno stage, master, corsi di specializzazione, periodi lavorativi sottopagati e alla fine dei conti restano con le mosche tra le mani.Quelli che decidono di rimanere devono affrontare un pendolarismo interno faticoso, treni fatiscenti, trasporti pubblici inefficienti, servizi sanitari inadeguati, infrastrutture inesistenti in un quadro complessivo di ritardo dello sviluppo. Devono fare i conti con l’attesa che qualcosa accada. Molti di quelli che restano sono tentati da un’unica strada, quella della pubblica amministrazione. Come nel periodo post unitario. Le uniche possibilità di sopravvivenza per i figli della borghesia, stanno nelle libere professioni, nel pubblico impiego, nella politica, esprimendo nei fatti un bisogno crescente di rendita amministrativa. I più poveri, le braccia che non emigrano, anche loro devono ricorrere alla politica e alla pubblica amministrazione, sperando in lavori certamente più umili ma necessari a una sopravvivenza supportata dalle certezze dell’amministrazione pubblica.

Perché gli incentivi non funzionano?

Se i giovani del Nord emigrano all’estero soprattutto per cercare condizioni di lavoro migliori e retribuzioni più alte, quelli del Sud vanno al Nord per cercare non solo un lavoro, ma un futuro stabile e sostenibile. Si emigra in cerca di futuro, di condizioni complessivamente migliori al cui centro c’è senza dubbio la necessità di un lavoro decentemente retribuito e, possibilmente, gratificante. Tuttavia, quel lavoro se collocato in un contesto di disagio, non appare desiderabile.

C’è bisogno di un clima pubblico accogliente, di infrastrutture culturali e civili agevoli e funzionanti, di un welfare che sappia dare supporto nei momenti di difficoltà. C’è bisogno di una giustizia che funzioni, di una burocrazia credibile, di una sanità affidabile. Insomma, di un ambiente politico, istituzionale, sociale ed economico che dia un senso alla scelta, un’affidabilità alle prospettive di permanenza in un luogo. Tutto questo in Basilicata, specie nelle aree interne, non c’è.

Le politiche degli incentivi, quasi tutte concentrate sul lavoro, non producono grandi effetti: i giovani emigrano lo stesso. Proprio perché il problema del lavoro è centrale ma non esclusivo. Il contesto è fondamentale quanto il lavoro. E non solo il contesto fisico – infrastrutture, funzionamento dei servizi, eccetera – ma il funzionamento e la qualità dell’intero sistema che ruota intorno all’abitare nel territorio – città, quartiere, regione – in cui lavoro.

I giovani, in sostanza, hanno bisogno di fidarsi del territorio. L’affidabilità di un territorio è data da diverse variabili sociali, politiche, culturali. Al centro delle variabili immateriali troviamo la fiducia. Il capitale di fiducia sviluppa convivenza civile di qualità, senso di sicurezza, senso di comunità e di reciprocità.

In un territorio dove si truccano i concorsi, dove si inquina impunemente, dove il welfare non funziona, dove l’Università ha un rating basso, dove circolano corruzione, privilegi, raccomandazioni, dove il problema del free-rider è accentuato, dove l’ambiente naturale è sottoposto a forti stress, la fiducia scarseggia insieme a tutto il resto. Si verifica un fenomeno che possiamo definire “deprivazione della speranza”. Se chiudi il Centro Internazionale di Dialettologia, per esempio, i giovani ricercatori vanno via. Altro che stati generali della natalità.

Le politiche degli incentivi all’occupazione – destinazione giovani, resto al sud, garanzia giovani, eccetera – da sole non bastano, anzi appaiono inutili, senza massicci interventi di rigenerazione sociale, economica e politica.

L’approccio del bruco

Le misure adottate fino ad oggi per incentivare l’occupazione giovanile sono limitate da un approccio debole. I giovani, e non solo, sono trattati come bruchi. Esseri che seppure destinati a diventare farfalla, sono costretti a rimanere a lungo nella condizione del bruco. Perciò la politica, che si comporta da grossolana bio-politica, si occupa delle foglie, ossia del cibo (il lavoro). E le iniziative sono tutte finalizzate alla garanzia del cibo al bruco, in maniera tale che possa vivere. Le condizioni “climatiche” “ecologiche”, “geomorfologiche”, ambientali, necessarie al passo successivo naturale che riguarda la metamorfosi di quel bruco in farfalla, diventano spesso marginali. Fuor di metafora, diventa marginale il buon funzionamento e la qualità del sistema che ruota intorno al lavoro, ossia il sistema di vita complessivo. I giovani non amano la prospettiva del bruco, aspirano – come è naturale che sia – a diventare farfalla. E se percepiscono che in un territorio ci sono le condizioni per sviluppare un percorso di emancipazione nel lavoro e allo stesso tempo dal lavoro, scommettono volentieri in quel territorio. Ancor di più scommettono se in quel percorso sono protagonisti.

L’approccio tamarindico

Non credo che molti dei ragazzi che sono andati via avranno a breve la possibilità di tornare, se lo vorranno. È però possibile evitare che i nati di oggi tra 20-30 anni decidano di emigrare. Questa possibilità risiede nella capacità di costruire percorsi di sviluppo che producano risultati sul lungo periodo. Percorsi, dunque, strutturali, di rigenerazione economica, politica e sociale che nulla abbiano a che fare con il consumo immediato dei frutti (consenso politico, arricchimenti immediati di pochi, comode soluzioni istantanee, emarginazione del futuro) ma che abbiano molto a che fare con la cura del terreno e degli alberi. Investimenti ragionati, che diano un senso alle misure di carattere economico in relazione alle potenzialità del territorio, in una prospettiva di sviluppo (e non solo di crescita).

Se cominciamo a curare il terreno e l’albero eviteremo in futuro la fuga di giovani e tratteremo la mobilità delle persone come un fenomeno naturale e virtuoso che non avrà alcun carattere migratorio. Occuparsi oggi del terreno e dell’albero, consentirebbe anche a chi ha già lasciato questa terra di provare a ritornare. Tuttavia, la cura del terreno e dell’albero richiede nuovi approcci, nuove esperienze, nuovi protagonisti, nuovi saperi. Chi è abituato a mangiare i frutti senza preoccuparsi dell’albero non può azzardare nessuna prova di redenzione. Il bancomat è cosa diversa da un tamarindo.