I politici del Sud si vergognano di difendere gli interessi del proprio territorio

20 aprile 2023 | 18:19
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I politici del Sud si vergognano di difendere gli interessi del proprio territorio
Foto, LaPresse, 2023

Peccato che non si possa fare come nelle squadre di calcio: pochi mesi di ‘prestito’ di Calderoli e Giorgetti al Sud e tutto si smonterebbe in un fiat

C’è differenza tra i politici del Nord e quelli del Sud. Quelli del Nord condizionano la politica del proprio partito agli interessi locali. Quelli del Sud la subiscono e la difendono, anche quando palesemente è contro gli interessi del territorio che rappresentano.

È proprio in occasione della questione della Autonomia Differenziata che appare più evidente questo squilibrio comportamentale. I politici di destra del Sud aderiscono a questo scempio e quelli di sinistra vanno ad assetto variabile in funzione di chi la propone. Quando la proponeva il PD di Amato, Gentiloni, Letta, Bonaccini, Draghi eccetera si comportavano come quelli di destra oggi.

Più in generale la classe dirigente settentrionale non si vergogna di difendere gli interessi del proprio territorio. La classe dirigente e gli intellettuali del Sud sono invece spesso in prima linea a denigrare il Mezzogiorno e se stessi. Si arriva al paradosso che anche i Bardi e gli Occhiuto, come i De Luca e gli Emiliano prima, non si rendono conto che dare spago alle banalità che si dicono sul Sud, come la incapacità di selezionare il proprio ceto politico, equivale ad affermare che Attilio Fontana è meglio di loro.

Credo che questo derivi da quello che l’immenso Carlo Levi definiva ‘il complesso di inferiorità dei meridionali’. Ma questo non risolve, ma sposta la domanda sulle origini di questo complesso.

Credo che risalga al periodo dell’Unità D’Italia. Ricordate? Non fia loco ove sorgan barriere /Tra L’Italia e l’Italia, mai più! Ma la retorica unitaria era facile quando si trattava di unificare la Lombardia, che era sotto il tacco dello straniero, e il Piemonte. Più difficile giustificare l’invasione del regno Borbone, retto da una monarchia naturalizzata napoletana da secoli e dove la lingua ufficiale era l’italiano. Occorreva quindi demonizzare e demolire l’immagine di questa monarchia descritta come brutale e retrograda dalla stampa dell’epoca forte anche delle missive di Lord Gadstone. Ma era proprio così? Forse, ma meno di quella sabauda come dimostrano i fatti del 1849 a Genova, quando Vittorio Emanuele II fece bombardare dal mare Genova, case e ospedali compresi, e i bersaglieri si accanirono sulla popolazione civile stuprando e uccidendo donne e civili.

La borghesia napoletana era meno irrequieta di quella del Nord Italia nel chiedere la democrazia? Non direi, forse era anche più determinata. Nel 1799 la Repubblica Napoletana, nel 1821 il primo parlamento e la prima costituzione, nel 1848 i moti e nuova costituzione. Nel 1848 molti guardavano ai Borbone come dinastia unificatrice, tanto che Giuseppe Verdi compose l’Inno alla Patria per Ferdinando II. Come Carlo Alberto, detto Re Tentenna, Ferdinando cambiò spesso idea forse perché convinto che i francesi avrebbero messo un murattiano sul suo trono. La repressione dei moti del ’48 a Napoli nulla ebbe a che vedere con quello che era successo a Genova. Ma la propaganda orchestrata dagli inglesi, che erano entrati in rotta di collisione con i Borbone per lo sfruttamento delle solfatare, fecero breccia.

Il 6 settembre 1860 Liborio Romano, primo ministro di re Francesco II, non essendo certo dell’accoglienza che i napoletani avrebbero riservato a Garibaldi nominò Salvatore de Crescenzo, capo della camorra, a capo della polizia. Napoli precipitò nel caos e la Reggia fu depredata da camorristi e garibaldini. Quando re Vittorio arrivò a Napoli la trovò nel caos e sporca come la Reggia e si fece una pessima impressione di Napoli e dei napoletani e non fece nulla per nasconderlo.

Il 17 marzo 1861, con la proclamazione del Regno d’Italia, il corpo delle leggi e l’ordinamento burocratico dello Stato, frutto di una commissione che armonizzò le leggi piemontesi e quelle lombarde, furono estese senza colpo ferire al Regno delle Due Sicilie.

Ma l’operazione propaganda era così riuscita che ancora oggi parliamo di burocrazia borbonica, invece di sabauda, che sarebbe più corretto. Insomma la mala fama sui Borbone iniziò a estendersi ai napoletani e poi al resto dei meridionali.

Questo avvenne con il brigantaggio, più una rivolta contadina che un tentativo di rimettere Francesco II sul trono. Però c’era appena stato il plebiscito, con una adesione al nuovo regno tanto unanime quanto tarocca, e quindi sia la rivolta sia la repressione doveva essere giustificata con la natura stessa dei briganti. Quindi venivano denudati, uccisi, lordati di sangue e fango e poi fotografati per esaltarne la natura selvaggia. Non solo, Cerare Lombroso al seguito dell’esercito mozzava le teste ai briganti per misurarne distanze tra lobi e arcate e tirare fuori una teoria razzista come l’atavismo criminale. Anche la mala fama dei briganti si estese a tutti i meridionali.

La quotizzazione delle terre ci fu 90 anni dopo le promesse di Garibaldi, le infrastrutture di collegamento tra lo Ionio e il Tirreno, chieste dagli Albini, Racioppi, D’Errico, ancora oggi non ci sono.  Zanardelli dopo 40 anni dall’Unità rimase sconcertato dal dover attraversare la Lucania a dorso di mulo e la costruzione della ferrovia Napoli – Reggio Calabria iniziò 30 anni dopo l’Unità.

Nel 1950 la riforma agraria arrivò quando l’intero paese aveva deciso di lasciarsi alle spalle il suo passato contadino e iniziò l’industrializzazione del Nord che fu tentata senza convinzione al Sud negli anni ’80, quando iniziava l’era dei servizi e della globalizzazione. Quando toccò al Sud fare le infrastrutture, iniziate a fine anni ’90, furono subito bloccate per entrare in Europa. Gli interventi straordinari al Sud sono sempre stati fatti con risorse sostitutive e mai aggiuntive a quelle ordinarie utilizzate dal Nord. Però ogni lira o euro al Sud diventava oggetto di propaganda facendoli sembrare una enormità, invece di una frazione di quello che si spendeva al Nord.

Secondo i Quaderni della Università di Siena (N° 663 del 2012) fatto 100 il PIL pro capite italiano del 1871 la Campania era a 107, il Piemonte 103. Oggi la Campania è a 64 e il Piemonte 106. Poteva essere il contrario?

Come giustificare questi dati se non con questioni antropologiche invertendo sempre causa con effetto?

La conclusione è proprio in questa classe politica e dirigente incapace di capire come produrre lo sviluppo del Sud e di difendere i suoi interessi e che ancora continua a non capire come anche questo progetto sia figlio di questo atavico complesso di inferiorità.  Vae victis.

Da tutto ciò ne deriverà un Paese più debole sia al Sud sia al Nord, con una riforma frutto della pervicace e ostinata volontà che ha animato la Lega Nord di Calderoli e Giorgetti, i veri artefici di questo progetto secessionista nei fatti. Un progetto che traballa nella logica e negli effetti tenuto in piedi solo dalla loro abilità politica e dall’assenza di scrupoli e con l’unico obiettivo di dare più soldi al Nord. Peccato che non si possa fare come nelle squadre di calcio: pochi mesi di ‘prestito’ di Calderoli e Giorgetti al Sud e tutto si smonterebbe in un fiat.