Letteratura working class e mondo contadino: una poetessa di Colobraro
Dal 31 marzo al 2 aprile si svolgerà a Campi Bisenzio, vicino a Firenze, il primo festival italiano di letteratura working class
Dal 31 marzo al 2 aprile si svolgerà a Campi Bisenzio, vicino a Firenze, il primo festival italiano di letteratura working class (il secondo in Europa, dopo il Working Class Writers Festival tenutosi a Bristol, nel Regno Unito, nel 2021). L’iniziativa, nata dall’incontro tra Edizioni Alegre e il Collettivo di fabbrica Gkn in collaborazione con Arci Firenze, testimonia il crescente interesse di una parte del mondo della cultura per quelle forme spontanee di racconti, poesia, romanzi che danno voce alla subalternità di classe (di recente sono usciti Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class, Minimum Fax, 2022, dello scrittore Alberto Prunetti e Melanconia di classe. Manifesto per la working class, Atlantide, 2022, della poetessa e insegnante Cynthia Cruz).
Che possa essere rivoluzionario dare la definizione di letteratura a testi che sfuggono alla codifica dei generi, della grammatica e della stilistica consacrata dal canone scolastico e accademico fa sempre scena, anche se è un po’ un abbaglio: la critica letteraria ha mostrato da un bel pezzo come esista un grado di figuralita’ in ogni discorso umano e che quindi tutto, potenzialmente, è letteratura. Allora dove sta la novità? Nella presa di posizione contro una “cultura tipografica” che ha sempre estromesso dalla propria galassia le opere di autori considerati estranei al parnaso dei letterati a causa della loro estraneità a un certo tipo di immaginario, a un certo tipo di lingua e a un certo tipo di convenzioni. A questo proposito gli organizzatori del festival di Campi Bisenzio si pongono e ci pongono una domanda molto intelligente: “Ogni anno si parla delle persone che non comprano libri in Italia, ma siamo sicuri che l’industria editoriale pubblichi libri in grado di parlare a queste persone facilmente denigrate come ignoranti?”.
Poi c’è il problema della bella scrittura: un testo che presenti sgrammaticature e forme ineleganti viene vissuto come un abuso, un tentativo espressivo maldestro, non riuscito, pericoloso se pensiamo alla funzione storica che ha avuto la lingua nel nostro paese, coesiva e centripeta, in antagonismo con i dialetti e le loro spinte identitarie. E se la letteratura rimane il principale modello della scrittura, come farvi rientrare ciò che non si configura come scolasticamente corretto?
Sono tanti, dunque, i problemi di definizione quando si parla di letteratura working class (oltre al cosa e al come, l’incertezza riguarda anche il chi: qualcuno ci fa rientrare persino i lavoratori precari dell’università, sic!), e chissà se questa fluidità lascia spazio ai versi di una contadina lucana del secolo scorso, Maria Fiorenza, nella cui produzione prendono vita alcuni caratteri che normalmente distinguono chi usa la lingua in modo artistico da chi non lo fa: passione civile, visione umanistica, tenerezza verso il mondo della natura e degli affetti, capacità di trasfigurare l’esperienza privata in un messaggio universale.
Molto del fascino di questa scrittrice di estrazione popolare risiede nella sua vicenda biografica: nata donna, poverissima, nel 1906 a Colobraro (MT), una delle aree rurali più arretrate e isolate del paese, manifesta subito l’inclinazione allo studio, che interrompe precocemente per dedicarsi alla cura del bestiame e dei fratelli più piccoli (Son tempi tristi cosa ti posso fare / bisogna che tutti dobbiamo lavorare ammoniva il padre). In molte delle sue liriche (pubblicate nel 2010 dalla casa editrice Archivia di Rotondella nella raccolta si nacque in miseria triste) è presente il desiderio frustrato della scuola, dei compagni, della maestra, struggenti le pagine dedicate all’incidente domestico capitato a Lidia, la figlia. Infuocate e terribili le invettive contro i politici che svendono il bene comune a logiche clientelari, contro l’Ente Riforma (Sono stati espropriati ai marchesi e baroni / ma altri massoni ne sono padroni), spontanea e potente l’utopia di un mondo giusto (Quando verranno gli stanziamenti / per dar lavoro a tutta la gente / per far progredire i contadini / per limitare la Montecatini?). Poi un orgoglio di classe da fare invidia ai rivoluzionari dell’Ottobre Rosso (I democristiani son grandi oppressori / son sempre lo scoglio dei lavoratori / ma noi comunisti più stretti lottiamo / del sangue versato avanguardia siamo).
La metrica zoppicante e la presenza abbastanza ingombrante dei modelli scolastici (Carducci e Pascoli in testa a tutti) non fiaccano troppo le nervature dei suoi versi – a livello di musicalità e suono i più riusciti sono probabilmente quelli in dialetto, ma ci vorrebbe un esperto. A occhio sembra che ci sia materiale per approfondimenti che vanno dalle scienze sociali (il ruolo nient’affatto subalterno delle donne nelle culture contadine e matriarcali), alla linguistica, alla storia del Novecento, di cui questa donna si sente vera protagonista nonostante la marginalità sociale e geografica a cui per la maggior parte della vita è relegata (solo il trasferimento a Torino, a metà degli anni Sessanta, la metterà in contatto con una realtà diversa).
Siamo di fronte a una figura che per raccontare il mondo proletario, o sottoproletario, non ha dovuto tradirlo. Non è tanto poco.