L’alba, tanto cara a Scotellaro, è l’ora in cui devi decidere chi sei
Lettera aperta al direttore de La Gazzetta del Mezzogiorno
Tutti hanno gioito in Basilicata – e non solo – quando nel febbraio scorso La Gazzetta del Mezzogiorno è ritornata in vita nelle edicole, sul web e sotto il braccio di chi, per tradizione, l’ha sempre letta, con un titolo evocativo: «Sempre nuova è l’alba» del poeta Rocco Scotellaro. Il simbolismo sembrava chiaro: volontà di coinvolgere un pubblico colto, giovane e con la schiena dritta, richiamandosi alle origini contadine del Sud.
Gentile direttore Oscar Iarussi, le scrivo perché sono giorni che mi domando perché un uomo colto e raffinato come Lei si è prestato a delegittimare con quel «ce l’ha coi terroni» un gigante della letteratura con il pretesto di «sfatare il mito di Levi», che poi mito non è mai stato?
Ho già scritto a proposito della mia posizione culturale, decostruendo il pensiero fallace di Gaetano Cappelli sul giornale che mi ha ospitato e che della Basilicata porta anche il nome. I miei interventi pubblici nascono dalla necessità di pacificare definitivamente questa nostra memoria collettiva.
Perché i lucani non riescono a storicizzare quella condizione di miseria, perché non accettano quella che fu definita “vergogna nazionale”? Io credo, appunto, proprio per vergogna. Perché a Levi non si perdona di averla resa pubblica. Eppure oggi i famosi Sassi di Matera sono abitati dai notabili della città, non più dai contadini. Nei Sassi ci sono gli Airbnb a centinaia di euro a notte. Oggi è tutto capovolto. Ai contadini hanno rubato finanche le case.
Il bullismo letterario di Gaetano Cappelli è solo l’ultimo colpo di coda di quel rancore nato quasi ottant’anni fa subito dopo l’uscita del famoso libro Cristo si è fermato a Eboli. Il dualismo levismo/antilevismo nacque allora – e si ripresenta oggi con le parole dello scrittore lucano – è una categoria inventata che esiste solo nella mente di chi non ha letto il libro o di chi se ne serve per alimentare inutili rovescismi storico-letterari. È rimasto solo lui, il Cappelli dico, ormai fuori dal Tempo e dalla Storia.
Ho preso la parola perché non voglio essere complice di quella cultura del rancore e mi servo delle parole di Levi, che con i lucani ha convissuto per quasi un anno, per spiegare: “Gli anni erano passati, e di tutte le antiche passioni una sola era rimasta, e aveva preso il carattere della fissazione: il rancore. […] Don Trajella odiava il mondo. Il suo solo conforto […] era di passare il giorno a scrivere epigrammi latini contro il podestà, i carabinieri, le autorità e i contadini”. Ecco, Cappelli li scrive solo contro Carlo Levi!
Io non sono vittima di levismo. Ho solo letto il Cristo ed ho studiato il pensiero complesso e articolato di Carlo Levi. Con le sue fumose teorie, lo scrittore lucano cerca di delegittimarmi. E per trovare una risposta di misura almeno pari alla lunghezza delle sue vedute, non ha trovato di meglio che giochetti semantici che tanta ilarità hanno portato al tavolo che si è riunito il 19 dicembre, in diretta streaming, a Potenza per celebrare i 135 anni del suo giornale. Ed è sempre lui che s’inerpica sulle vette della sua retorica nel tentativo di ridicolizzare Leonardo Sinisgalli e Carlo Levi, la cui profondità di pensiero, per fortuna, va ben oltre il suo perimetro visivo e cognitivo. Ma non si ferma mai e nel rispondere a un vostro lettore rituona le oscenità il 28 dicembre. Vuole avere sempre l’ultima parola.
Dicevo, per giorni mi sono chiesta perché un direttore che apre la prima pagina con il verso di Scotellaro abbia legittimato un linguaggio così osceno. Ma è forse Lei stesso che lo spiega quando, durante il suddetto incontro, risponde allo scrittore lucano che ironizzava sull’eco mediatica creata dai suoi articoli: “Non è vero che ero inconsapevole, sapevo che sarebbe accaduto ed ho scelto di pubblicare in prima pagina”. Insomma, per un pugno di copie e di click in più, proprio rinunciando al ruolo di mediazione del giornalismo, si consegna a “quell’infosfera in cui non è facile distinguere il vero dal falso”, come ricordava Lei stesso quella sera.
Ecco, anche Lei, direttore Iarussi, si è servito di Carlo Levi per attirare l’attenzione, usando Cappelli come arma impropria, come un redivivo denigratore di ottant’anni fa, mandandolo allo sbaraglio, consapevole di farlo. Creando una sorta di reality show, senza realtà e senza nemmeno show perché quello che ne è venuto fuori è un varietà crepuscolare che è poco coerente con l’alba a cui si richiamava con l’apertura de La Gazzetta del Mezzogiorno.
L’alba, tanto cara a Scotellaro è l’ora in cui devi decidere chi sei. E dell’arte di prendere una decisione, il poeta conosceva bene le ombre e le luci: «Ecco che uno si distrae al bivio, si perde. E chi gli dice ‘Prendi questa’ e chi ‘Prendi quest’altra’. E uno resta là, stordito. Aspetta che le gambe si muovano da sole».
Ecco direttore, io credo che Lei si sia distratto al bivio chiamando “maestro” un uomo, il Cappelli dico, che non ha niente di lucano, non ne ha il cuore, ma soltanto il rancore, quella profondissima struttura interna che si manifesta ciclicamente nel perpetuo “immoto andare”.
Perché direttore Oscar Iarussi ha lasciato che la redazione di Potenza diventasse il megafono del cappellismo provinciale? *Graziella Salvatore, sociologa