Informazione: la ricerca Unesco mostra la distanza dell’Italia dagli standard internazionali
Sono più di vent’anni che il Parlamento italiano discute di abolizione delle pene detentive a carico dei giornalisti. Senza risultato
La lettura dei nuovi dati dell’UNESCO, qui il Dossier, rende di un’evidenza incontestabile la distanza tra l’apparato normativo italiano in materia di diritto all’informazione e gli standard internazionali chiesti dagli organismi internazionali in materia di diffamazione sia in campo penale sia in campo civile.
Sono più di vent’anni che il Parlamento italiano discute di abolizione delle pene detentive a carico dei giornalisti. Senza risultato. Cinque legislature non sono bastate a mettere mano al Codice penale fascista e alla legge sulla stampa. Su quest’ultima – in vigore dal febbraio dal 1948 –è intervenuta nel 2021 la sentenza della Consulta che ha stabilito l’”illegittimità costituzionale” dell’articolo 13 della legge sulla stampa. La norma per il reato di diffamazione a mezzo stampa aggravato dall’attribuzione di fatto determinato prevedeva la reclusione da uno a sei anni più – cioè in aggiunta – la multa fino a 50mila euro. La stessa sentenza ha invece “salvato” l’articolo 595 del Codice penale che prevede per la diffamazione a mezzo stampa una pena detentiva da sei mesi a tre anni o – in alternativa – la multa fino a 50mila euro. (limite massimo non indicato dalla norma ma dall’articolo 24 del Codice penale che fissa appunto in 50mila euro il massimo della multa comminabile).
Dinanzi allo stallo politico-parlamentare è dovuta intervenire la Corte costituzionale che con la sentenza del 2021 ha sollecitato il Parlamento a intervenire anche per aggiornare la normativa sulla stampa al mondo nuovo.
Poi, dal 2020 funzionano benissimo alcuni alibi: l’emergenza pandemia, la guerra, la crisi economica, la crisi energetica, le quali vengono prima di ogni altra cosa ed è dunque comprensibile e giustificato il fatto che non venga garantito il pieno diritto dei cittadini a essere informati. Perché di questo parliamo quando discutiamo di libertà di stampa se è vero – com’è vero – che il titolare del diritto all’informazione è il cittadino.
Che cosa accadrà in questa legislatura e di che cosa avremmo bisogno? Quali misure dovremmo adottare per soddisfare le richieste dell’UNESCO?
Accadrà che verranno ripresentati i disegni di legge delle ultime legislature. Anzi, almeno due proposte sono state già presentate: una al Senato (primo firmatario Walter Verini del PD) e l’altra alla Camera (primo firmatario Pietro Pittalis di Forza Italia). Di quest’ultima proposta non è ancora disponibile il testo. Abbiamo invece quella del senatore Verini. Può risultare interessante analizzarla, anche se in modo sintetico, perché l’articolato ripercorre e riproduce le stesse scelte operate nei disegni di legge delle passate legislature intorno ai quali si era coagulata la convergenza di forze politiche di maggioranza e opposizione. Insomma, qual è l’orientamento, quale la direzione di marcia. Cosa c’è e che cosa manca?
In sintesi:
- L’ambito di applicazione della legge sulla stampa viene esteso alle testate telematiche registrate.
- La reclusione prevista dal Codice penale viene sostituita dalla multa fino a 10mila euro. Se il reato di diffamazione a mezzo stampa è commesso con attribuzione di fatto determinato la multa è di 10mila euro nel suo minimo e di 50mila nel suo massimo. Si tratta di cifre altissime se rapportate all’editoria italiana nel suo complesso (che è molto di più dei due o tre grandi gruppi). Sono somme in grado di far chiudere testate medio-piccole. Per questo qualcuno dice “meglio la galera che queste multe”. La verità è che si continua a tenere in poco o alcun conto il principio giuridico sul quale insistono la Corte europea dei diritti umani e l’UNESCO: le pene e le sanzioni pecuniarie devono essere proporzionali alla condizione economia del giornalista.
- Su questo punto delle pene per la diffamazione si deve rilevare un fatto curioso: le pene proposte sono presentate come sostitutive di quelle previste dall’articolo 13 della legge sulla stampa, ma la proposta invece non abroga l’articolo 595 del Codice penale che stabilisce le pene detentive per la diffamazione, tutti i tipi di diffamazione, anche quella semplice e non a mezzo stampa. Paradossale: si cancella la galera da un articolo di legge già dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale (inesistente dal 13 luglio 2021) e la si mantiene invece nel Codice penale. Si profila un pasticcio: si toglierebbe il carcere per la diffamazione aggravata dal mezzo della stampa, ma lo si lascerebbe per la diffamazione semplice.
- Alla condanna consegue l’obbligo della pubblicazione della sentenza.
- In caso di recidiva viene inflitta la pena accessoria dell’interdizione dalla professione di giornalista da uno a sei mesi. Per ovvi motivi, da questa pena è escluso il direttore responsabile.
- Non viene abrogato l’articolo 596 del Codice penale: resta dunque il divieto per i giornalisti di provare in giudizio la verità dei fatti narrati.
- Quanto alle liti temerarie dirette a guadagnare sostanziosi risarcimenti dei danni da diffamazione, la proposta prevede per chi ha agito in giudizio contro il giornalista con dolo o colpa grave la condanna al pagamento a favore della cassa delle ammende di una somma non superiore a trentamila euro. Poca cosa per chi da posizione di potere muove una causa temeraria e intimidatoria contro i giornalisti. Molto più efficace per l’effetto di deterrenza sarebbe una norma che condannasse il soggetto a versare al giornalista una somma pari ad almeno la metà di quanto richiesto per danni da diffamazione.
- Si propone la modifica dell’articolo della legge sulla stampa relativa alla rettifica. Modifica peggiorativa, perché verrebbe introdotto l’obbligo di pubblicazione della rettifica senza titolo, senza commento e senza risposta. Non pubblicare fa correre il rischio di una sanzione pecuniaria fino a 16mila euro. Pubblicare la rettifica non si traduce nell’improcedibilità della querela o della lite civile. In sostanza, la testata subisce l’obbligo di rettifica senza nemmeno avere la possibilità di replicare e si guadagna comunque ed egualmente la chiamata in giudizio. Pubblicare spontaneamente una rettifica può è essere causa di non punibilità. E ciò sarebbe una novità positiva.
Il disegno di legge – al quale certamente se ne aggiungeranno altri di egual tenore – presenta lacune vistose. L’ipotesi della depenalizzazione del reato di diffamazione non è presa in considerazione nemmeno per motivare l’esclusione della sua adozione. Almeno altre due lacune devono essere segnalate:
- Non viene introdotto il reato di ostacolo all’informazione. Proposta già avanzata, e da mesi, da Ossigeno per l’Informazione e dall’Associazione Stampa romana.
- Il reato di diffamazione a mezzo stampa resta ancora e sempre doloso e si continua a non voler introdurre la distinzione tra macchina del fango e reato commesso per errore, cioè per colpa. Insomma, il giornalista – al contrario di tutti gli altri professionisti – non può sbagliare per negligenza, imperizia o imprudenza. Ciò comporta una conseguenza di non poco rilievo: l’impossibilità per i giornali e i giornalisti di assicurarsi contro i risarcimenti per danni da diffamazione. Ciò che è consentito a tutti gli altri professionisti è vietato ai giornalisti. GFM
Il giornalista Giuseppe F. Mennella è segretario generale di Ossigeno e direttore del mensile LiberaEtà