L’antilevismo lucano, salvate il soldato Hiroo Onoda

7 novembre 2022 | 19:24
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L’antilevismo lucano, salvate il soldato Hiroo Onoda
Carlo Levi

Perché la Basilicata non riesce a pacificarsi con la memoria del famoso libro?

L’antilevismo lucano è un fenomeno da studiare antropologicamente, in Basilicata riaffiora ciclicamente in forme più o meno subdole, ostinato e immutato nonostante il tempo passato, e a quasi ottant’anni dalla pubblicazione del famoso libro Cristo si è fermato a Eboli.

Questo antilevismo di ritorno e il silenzio sordo con il quale è stato accolto mi motiva a scrivere, non voglio essere complice della cultura del risentimento. Penso alle nuove generazioni, a mio figlio, a come ricostruiranno questa storia controversa. Il silenzio è un’arma.

Il Cristo si è fermato a Eboli è il più grande atto d’amore fatto alla Basilicata. È insieme un romanzo, una autobiografia, un saggio, un reportage. Levi ha vissuto a Grassano prima e Aliano dopo meno di un anno da confinato politico (1935/1936) del regime fascista di Mussolini. È stato testimone di quel mondo. La sua prosa poetica ha segnato a fuoco la cultura italiana nel dopoguerra, ha toccato l’anima di molte persone in tutto il mondo. È la forza civile dell’opera letteraria che diviene strumento di analisi interiore e politica e Aliano, con la sua dimensione arcaica ed eroica, divenne simbolo di un intero Sud.

Certo, la grandezza di Levi va oltre il perimetro della Basilicata, è impossibile scalfirla, ma il silenzio mi preoccupa. Perché in Basilicata celebrano Carlo Levi e allo stesso tempo permettono, con il rumoroso silenzio questo scempio culturale? Perché questa terra non riesce a pacificarsi con la memoria del famoso libro?

La Basilicata ha bisogno di un nuovo paradigma culturale e politico, si abbandoni definitivamente questa miseria culturale perché non è più sufficiente la difesa di maniera, giocando e invertendo il senso delle parole leviane, arrivando a scrivere di Levi “un uomo che ci somiglia”. No! Non ci somiglia affatto. È arrivato il tempo in cui dobbiamo, noi lucani, imparare a somigliare a Levi. E per farlo ci vuole coraggio. Il coraggio della parola che tutto trasforma.

La Basilicata ha smarrito se stessa, bisogna ritrovare La Lucania che è in ciascuno di noi, forza vitale pronta a diventare forma, vita.

Il vero problema dei lucani è la gestione del dolore, bisogna trasformarlo in azione, riguadagnare l’etica della responsabilità, e impedire a quel dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose di ridurci al silenzio rancoroso. L’antilevismo lucano ci fa tornare indietro, nel secolo scorso. I detrattori per professione ci furono allora, ottant’anni fa, e continuano ad esistere tutt’oggi. Hanno come unico scopo quello di sminuire il valore di una personalità culturale – quella di Levi – e di un’opera – Cristo si è fermato a Eboli – banalizzando e atrofizzando un pensiero complesso e articolato.

Perché lo fanno, perché i lucani non riescono a storicizzare quella condizione di miseria, perché non riescono ad accettare quella che fu definita “vergogna nazionale”? Perché a Levi non si perdona di averla resa pubblica. Eppure oggi i famosi Sassi di Matera sono abitati dai notabili della città, non più dai contadini. Oggi è tutto capovolto. Ai contadini hanno rubato finanche le case.

Certamente le condizioni di povertà degli anni ‘30 del secolo scorso erano diffuse nei centri rurali di tutta Italia, ma nel nostro caso sono state denunciate con le parole di un poeta, di uno scrittore.

Quindi, cosa si rimprovera a Levi, doveva anche lui girare lo sguardo altrove e farsi “i fatti suoi”? Eppure fu lo stesso Levi che urlò in una piazza a Matera, anni dopo l’uscita del libro, la sua denuncia aveva come unico fine che quel mondo si muovesse.

Molti furono i confinati dal regime fascista in Basilicata, ma fu Carlo Levi ad avere la forza e la sensibilità di trasformare quella condizione di prigionia, di limitazione della propria libertà in un percorso di vita straordinario, resistendo alla ferocia del regime fascista – senza aver paura della libertà – trasformando quel confino in risorsa intellettuale, pittorica, poetica e politica. Solo lui ci riuscì davvero e le prove di questa sua generosità sono arrivate intatte fino ai giorni nostri.

La scrittura di Levi è un puro strumento di questo suo rapporto amoroso col mondo, di questa sua capacità di trasformare gli eventi, di resistere e reagire al dolore. È lo stesso Levi, ebreo antifascista, che lo scrive: «La casa era un rifugio: il libro una difesa attiva che rendeva impossibile la morte».

Carlo Levi amava i contadini lucani e ha restituito loro la dignità. Ha dato voce agli ultimi, ai diseredati, ai dimenticati, a quelli che i notabili del posto ignoravano e disprezzavano. Più volte Levi precisò questo pensiero, ai suoi occhi erano portatori di valori tanto da definirla civiltà contadina. Difese Rocco Scotellaro, il sindaco contadino di Tricarico, dall’ingiusta accusa e detenzione dalla quale fu assolto perché il fatto non sussisteva, calunniato e ostacolato dagli oppositori politici. Da quella esperienza devastante non uscì vivo. Morì qualche anno dopo e Levi ne curò l’opera postuma. Era per lui come un figlio.

Si scrive che Carlo Levi «ce l’ha coi terroni». Questa non solo è l’argomentazione principale dell’antilevismo, ma è anche la più violenta e infondata analisi del testo. Eppure è così che ci viene presentata dal giornale redivivo, arrivando a dichiarare che – senza percezione del ridicolo – «al progressista Levi, non piacciono nemmeno i contadini!».

Fa male assistere a questo antilevismo lucano, ottuso e senza fondamenta, almeno a me. Vedere l’opera di Carlo Levi ridicolizzata, bullizzata sulle pagine culturali (sic!) de La Gazzetta del Mezzogiorno – il giornale più antico del Sud che proprio in questi giorni festeggia i 135 anni dalla nascita – deve farci riflettere. Ho già scritto su questa stravagante analisi di Gaetano Cappelli, dissacrando/analizzando a mia volta lo scrittore contemporaneo.

Non conosco personalmente Gaetano Cappelli, anche se lo ospito gentilmente nella mia libreria. Non so cosa lo anima, ma questo suo rancore culturale che sfocia nel bullismo letterario, questa sua provinciale e personalissima battaglia, deve farci riflettere.

Aspettavo reazioni pubbliche, una presa di posizione istituzionale, da parte di chi crede di conservarne la memoria, da parte di coloro che hanno anche la responsabilità di custodirne le spoglie, il presidente della Regione Basilicata, ma soprattutto il sindaco di Aliano e il presidente del Parco Letterario che sono sempre gli stessi. Da circa 25 anni si scambiano i ruoli in una specie di staffetta olimpica.

Tutti hanno scelto il silenzio. Chissà cosa ne pensa la luna nei calanchi.

Perché nessuno interviene pubblicamente, ma privatamente mi scrivono: “Cappelli è il vuoto”, “non ho tempo per Cappelli”, “a Cappelli non lo critica mai nessuno” e ancora “quasi nessuno legge la Gazzetta e ancor meno le persone interessate alle esternazioni di Cappelli”. Perché?

È sconfortante questo anacronistico antilevismo di ritorno, non mi sorprende la ben nota pratica del silenzio lucano dove tutto si ferma, ma è proprio questo silenzio che legittima ad alzare sempre più il livello del disprezzo, basato su una totale assenza di pensiero critico. E lo si fa, non nel salotto di casa propria, ma pubblicamente, senza paura di smentita. Ricercando sul web scopro che sì, qualcuno ha scritto. Ma timidamente, alludendo, insinuando senza citare mai il nome dello scrittore contemporaneo. Perché nessuno contesta pubblicamente Gaetano Cappelli, il primo ad essere intervistato dalle telecamere della Rai quando arrivano in Basilicata, proprio nella sua alta qualità di scrittore lucano contemporaneo?

Dunque, limitare la grandezza di Levi a quel confino politico e al solo Cristo si è fermato a Eboli, è una lettura povera e ingenerosa. Ma fu grazie a questo libro che in Basilicata, nel secolo scorso, arrivò la intellighenzia del mondo che continua, ancora oggi, a farci visita.

Consiglio a Cappelli di andare oltre il Cristo e leggere Paura della libertà, scritto quattro anni prima, nel 1939, da esiliato antifascista nel sud della Francia, anche se pubblicato dopo il Cristo.

La paura della libertà è il sentimento che ha generato il fascismo in Italia, straordinariamente attuale nello svelare le debolezze della nostra società. È una sorta di psicanalisi del rapporto fra suddito e potere. Invito Cappelli a pacificar il suo cuore perché l’accusa che rivolge a Levi certifica il suo livoroso antilevismo: «Il celebre scrittore che, da vivo, ad Aliano patì solo qualche mese, diventando immensamente ricco dopo averne raccontato la pittoresca miseria».

L’unico argomento che riconosco al Cappelli – certo lo fa a modo suo, con stile cinico e beffardo – è di aver svelato il mito della sepoltura. Poteva fermarsi a questo.

Non fu Levi a decidere la sua sepoltura ad Aliano, è falsa la narrazione legata al turismo culturale, come ha confermato, coraggiosamente e finalmente una donna, la prima sindaca in Basilicata, Maria Santomassimo che fu testimone dei fatti. Accogliendo nel 1975 il feretro di Levi, dichiara a Eliana Di Caro a p.55 del suo libro: «ci fu una diatriba sul corpo che si protrasse per quattro settimane tra i parenti e Linuccia [Saba] (morì il 4 gennaio, fu sepolto tra il 27 e il 28), poi prevalse la scelta di Aliano, una specie di nuovo confino».

Non sapremo mai quali furono le ragioni profonde che indussero la famiglia di Levi a prendere quella decisione. Di sicuro nessuno potrà confinare la grandezza di Carlo Levi, il suo desiderio di vita insieme al suo bisogno di libertà. Non ci riuscì nemmeno il dittatore Mussolini.

E alla feroce sentenza del nativo lucano con la quale chiude la sua stravagante analisi del testo – «è ora condannato a rimanere per l’eternità lì dove, scrisse, «Tutto mi era sgradevole». Eccosì sia!, se la ride malefico il woke. E una risata, lo confesso, me la faccio anch’io»-, posso solo ricordare che dopo Matera Città europea della cultura 2019 con i suoi Sassi e prima ancora Patrimonio mondiale dell’Unesco, credo proprio che sia Carlo Levi – e non Cappelli – a ridere beatamente, dovunque ora si trovi.

L’antilevismo lucano non si arrende mai.

Potenza, la città delle 100 scale, la città dove tutti scrivono e tutti presentano libri, ma nessuno legge davvero. Dove gli intellettuali si ignorano a vicenda, non si chiamano mai per nome, chiusi nella loro autoreferenzialità, e difficilmente prendono posizione sull’attualità, sullo stato delle cose, si chiedono sempre ma chi è, da dove viene, a chi appartiene, percorrono le strade silenziose del rancore. Ricordo sempre a me stessa – così tanto per esercitare la memoria – e a chi ha la pazienza di ascoltarmi che la Basilicata non è in grado di avere amici, non li sa riconoscere, chi ci ha provato è stato additato finanche come nemico. Levi ne è l’esempio più famoso, ma la lista sarebbe lunga.

Gaetano Cappelli incarna l’idealtipo, il perfetto rancore lucano, la negazione della memoria, l’incapacità di elaborare il passato e la totale mancanza di gratitudine. Nonostante abbia ottenuto successo come scrittore, non è emigrato. Ha deciso di continuare a vivere in Basilicata. Non si esprime mai su ciò che vi accade ma volge il suo sguardo da intellettuale sempre al passato. Non elabora una visione del futuro possibile, impegnato com’è a fare rovescismo storico.

E a chi gli chiede conto delle sue affermazioni risponde con i cinguettii: “dico solo che il 21sett 43, mentre Levi Carlo se ne stava in Firenze a scrivere il suo stravagante Cristo s’è fermato a Eboli, descrivendo Matera come un posto fuori dal Tempo e dalla Storia, Matera fu la prima città in Italia a libberarsi dai nazzi!”.

Apre continuamente nuovi fronti senza temere smentita e cancella in un sol colpo le coraggiose quattro giornate del popolo napoletano, togliendo a Napoli il primato di essersi liberata da sola dal nazifascismo nel ‘43, la prima città in Italia e in Europa.

Ecco chi è Gaetano Cappelli, il soldato Hiroo Onoda che aveva l’ordine di non arrendersi mai e che obbedì alla lettera. Chissà chi ha dato quell’ordine allo scrittore contemporaneo. Qualcuno avvisi il soldato Cappelli che è rimasto – ormai – solo lui fuori dal Tempo e dalla Storia.

Graziella Salvatore, sociologa *

L’articolo di Cappelli sulla Gazzetta del Mezzogiornoantilevismo

I tweet di Gaetano Cappelliantilevismoantilevismo

Fermo immagine dell’intervista al prof. Caserta su HyperBros.comantilevismo

Il libro di Eliana De Carocopertina libro