Sei cappelli per (non) pensare
Sfatare il mito di Levi è diventata una missione
Ci sono voluti 68 anni, ma ce l’ha fatta. Lo scrittore Gaetano Cappelli annuncia sulle colonne de La Gazzetta del Mezzogiorno che ha finalmente letto il famoso libro, Cristo si è fermato a Eboli. Lo fa proponendo una pirotecnica analisi linguistica, costruendo un dialogo immaginario con una sorta di alter-ego, woke (sic). Sì, utilizza proprio questa parola controversa, ma andiamo oltre.
Dicevo, sulle pagine de La Gazzetta del Mezzogiorno troviamo i caratteri cubitali del suo urlo disperato: Levi “ce l’ha coi terroni”. Sfatare il mito di Levi, questa è la sua missione. E per viverla fino in fondo, per sua stessa ammissione, l’ha finalmente letto per intero. E tra una battuta e l’altra (“Non fosse che subito gliene scappa un’altra, a Levi dico, e va a farla al pisciatoio in piazza, […] Oddioddio, stavolta, per rimanere in tema, [Levi] l’ha proprio fatta fuori dal vaso”), con stile caustico, frivolo e disincantato, sfiorando il bullismo letterario con un fare da boomer che prova a stare al passo con i tempi, s’inerpica nell’illusione di decostruire e delegittimare uno dei capolavori della letteratura del ‘900, riuscendo, nella non facile impresa, a oltrepassare, dal capoluogo più alto d’Italia, la cima della sua vanità.
Dal suo osservatorio privilegiato ci accompagna in un’analisi del testo usando la solita strategia. Riporta brevi stralci e decontestualizza. Cerca le prove del disprezzo il Cappelli. Decostruisce il corpo letterario e fa di Levi un denigratore sistematico, con tali voli pindarici da far impallidire i Black Panthers.
Cappelli non ha dubbi: è di Levi la responsabilità di aver inchiodato la Basilicata a una dimensione preistorica, e sembra proprio che lo urli alla Luna nei calanchi, la sua disperazione. Il tormento di Cappelli mi fa tenerezza, leggo, rifletto, cerco traccia di un pensiero a sostegno della sua tesi, ma trovo solo il suo asfissiante solipsismo vagare nei calanchi dove non c’è più nemmeno la Luna ad ascoltarlo.
La Tetrapiloctomia – l’arte di tagliare il capello in quattro – con la quale si sforza di articolare il suo rancore culturale è roba da capogiro, da dandy annoiato e sonnacchione, in là con gli anni, nella città che ama definire “città del sud più a nord che c’è”. Dimenticando, il Cappelli, o forse proprio per questo, che il capoluogo, oggi, ha il triste primato di essere guidato dal primo sindaco della Lega Nord in una città del Sud. Lei sì, la Lega dico “ce l’ha coi terroni”.
È ciclico Gaetano Cappelli, ogni tanto tira fuori Levi dal cilindro e inizia il suo rito. È uno spasso leggere il carteggio digitale sulla sua pagina Facebook, il suo slang dialettale misto a suoni onomatopeici inaugura il suo arcaico vittimismo “[Levi] M’ha traumatizzato l’adolescienzza. viva la basilicata de-levizzataahahah bonnuì!”.
Invita i suoi amici virtuali a leggere il libro “però ci si diverte. t’assicuro. per mon parlare di che scrive di mt quella snobbina de la sorellina”, “secondo me ti divertiresti assai! poi con quel tono da Tolstoj de la dimanche. ce stette apena 8 mezi e già li chiamava i “miei contadini”. E continua, il nostro nativo lucano nella ricerca del disprezzo“mica se la corcatte! nessuna se corvatte. l’ho detto che teneva la piussa al nazo”.
Questo vecchio esercizio di discredito, si palesò per la prima volta subito dopo l’uscita del libro nel 1946, da parte dei notabili dell’epoca, quelli che Levi chiamava “Luigini”, i responsabili – in quanto detentori delle risorse simboliche e materiali – dello status quo che ha soffocato lo sviluppo economico e sociale della Basilicata e del Mezzogiorno. Per i Luigini, gli stessi che disprezzavano i contadini che non sapevano leggere, attaccare Levi significava difendere il proprio peso politico e sociale. Lo status-quo.
Ecco, Gaetano Cappelli ci riporta indietro di ott’anni, ma lui si diverte così, non ha ancora metabolizzato il trauma, bisogna essere comprensivi. È da giorni che mi domando: come possiamo aiutarlo? Cosa possiamo fare per fargli superare il trauma e finalmente riconciliarsi con il proprio passato collettivo e individuale? La psicologia è chiara sul punto: l’identità si costruisce in due modi: affermando o negando. Con la negazione di Levi il Cappelli sta costruendo la sua senilità.
Sono passati quasi ottant’anni dalla pubblicazione del libro, il mondo è radicalmente mutato, ma lui proprio non riesce a pacificarsi. Certo, per Cappelli oggi è molto più facile esprimersi. Non rischia né la prigione né il confino per le sue idee, al massimo una pernacchia alla Eduardo De Filippo.
Quando Carlo Levi, a soli 33 anni fu arrestato e poi confinato dal regime fascista nel 1935 in Basilicata, Gaetano Cappelli non era nato. Non lo era neppure quando Levi, in quanto ebreo, fu perseguitato dalle leggi razziali di Mussolini, o quando riuscì a nascondersi a Firenze – dove scrisse il famoso libro – durante l’occupazione nazi-fascista grazie al coraggio di Anna Maria Ichino, o ancora nel 1945, quando il libro fu pubblicato, ed esplose con successo immediato e planetario con la sua flagrante forza civile e poetica.
E solo quando cadde il regime fascista, la democrazia vinse in Italia e ci si avviava a nuovi fermenti di ricostruzione e rinascita, Gaetano Cappelli venne finalmente alla luce. Era il 1954 e nella magnificenza di Potenza, capoluogo di regione, emise i suoi primi vagiti mentre, sempre nello stesso anno, Carlo Levi era impegnato a esporre la sua arte nella Biennale di Venezia.
Alla fine degli anni ‘50 dicevamo, quando stava per iniziare il boom economico italiano, il nostro nativo lucano inizia a esplorare il mondo.
Immagino l’articolato percorso formativo, da privilegiato qual è, da primo della classe. Percorre le strade del successo, ama la letteratura americana che ispira la sua ribellione e la sua estetica, sempre combattendo – ci fa sapere più avanti negli anni – con il trauma costante che il ‘Cristo si è fermato a Eboli’ ebbe sulla sua giovane vita, pur non avendolo letto per intero.
Non si ferma mai il nostro nativo lucano, e se dalle pubblicazioni rituali della regione Basilicata scrive “Maledetto Carlo Levi” dal suo salotto digital-snob, si fa promotore dell’iniziativa “Leviamo Levi da Aliano” per trasferire la tomba dello scrittore “a Torino, Firenza o Roma, dove amò vivere e sicuramente avrebbe voluto riposare da salma!”, facendo saltare, definitivamente e finalmente, lo storytelling della sepoltura controversa (fu la famiglia a scegliere Aliano e non lo scrittore) che tanta fortuna ha portato al marketing culturale nei luoghi di confino.
Sono strani questi scrittori contemporanei, in assenza di nemici nel gruppo dei pari, da novelli becchini-banditori con trombetta al seguito, di leviana memoria, si divertono a bullizzare i protagonisti della Storia.
Qualcuno avvisi Gaetano Cappelli che la famosa piazza XVIII agosto di Potenza, che tanto ama citare come difesa d’ufficio e prova del nostro stare nella storia, ha cambiato nome. In quel 1860, data che indica il giorno preciso dell’insurrezione dei potentini, “tra i primi in Italia alzarono il vessillo dell’Unità d’Italia”. Il nome è stato cancellato nella toponomastica, non esiste più. Oggi si chiama PiazzaVittorio Emanuele II. Non oso immaginare il trauma che dovrà affrontare nei prossimi anni. Si raccolgono firme per la creazione di un gruppo di sostegno.