“Nelle condizioni attuali di crisi e di ingiustizia sociale perché la gente non si ribella?”
Proviamo a dare una risposta aperta alla politica. Partiti asserragliati nelle istituzioni e cittadini sempre più chiusi nella dimensione privata e individuale
Alcuni si chiedono come mai, nelle condizioni attuali di crisi, di disparità salariali, di disuguaglianze, di povertà, di ingiustizie sociali, di sfruttamento nessuno si ribella oltre le proteste “istituzionali” degli organismi sociali e politici di rappresentanza. Proviamo a ipotizzare qualche risposta.
La prima riposta potrebbe essere molto semplice: Non è vero, come qualcuno racconta, che la situazione sia così drammatica al punto da scatenare insorgenze di piazza, la maggioranza degli italiani in fondo se la cava sempre, anche con sotterfugi sul filo della legalità. Scatta quell’istinto di sopravvivenza che si nutre di egoismi e individualismi tipici delle situazioni in cui ognuno è costretto a pensare per se. E poi, tra sussidi, bonus, contentini statali si ottiene un “rattoppamento” delle potenzialità della rabbia sociale. E perché i poveri, gli emarginati, le categorie più escluse dalla società non alzano la voce? A loro ci pensano le organizzazioni di solidarietà che fungono da calmieratori della rabbia, da smaltitori delle scorie sociali prodotte dal sistema di mercato. I “reietti” sono relegati in un mondo di sopravvivenza garantita da una cultura della compassione e della benevolenza assolutamente spoliticizzata.
La seconda risposta potrebbe essere più complessa. Diverse e potenti variabili entrano nel gioco dei potenziali conflitti politici e sociali per annullarli all’origine. Si tratta dei meccanismi culturali, ideologici, seducenti del capitalismo neo liberista finalizzati alla completa de-politicizzazione e de-ideologizzazione dell’azione pubblica e degli attori sociali. In questo quadro oggi scontiamo in Italia, “una deculturazione politica di massa avallata dalla grande trasformazione antropologica cominciata con il berlusconismo e infine consolidatasi attraverso il Movimento 5 stelle e i processi di digitalizzazione” (F. De Nardis, 2020). Finisce il tempo della cultura politica e dei riferimenti culturali della politica.
Decenni di neoliberismo e di sacralità del mercato lasciano sul terreno tragedie e macerie. Ma l’ubriacatura neo-consumistica, la dipendenza dalle piattaforme digitali e la conseguente de-materializzazione delle relazioni sociali, la trasformazione dei diritti in bisogni individuali, hanno fatto in modo che quelle macerie e quelle tragedie apparissero marginali rispetto ai nuovi canoni di benessere: consumo, possesso, edonismo, l’aspirazione a standard di bellezza fisica e di ricchezza ispirati dalla pubblicità e dai media. Ed è per questo benessere che vale la pena lottare, sgomitare, mettersi in gioco, competere. Il ceto basso aspira al ceto medio, quello medio al ceto alto e il ceto alto alla nobiltà, i plutocrati aspirano al reame. (Perdonate la semplificazione)
In questo contesto tutti i tentativi del riformismo europeo (da Blair fino all’Ulivo) sono miseramente falliti e continuano a fallire con il Pd e le altre forze politiche riformiste.
La terza risposta potrebbe essere più legata alla crisi dei partiti e della democrazia. A partire dagli anni 80 si restringe lo spazio di decisione della politica nazionale e si indeboliscono le funzioni statali di garanzia degli equilibri tra interessi economici e sociali. “Tutto si sposta a favore delle istituzioni internazionali come il Fondo Monetario o la Banca Mondiale, o di istituzioni private come le società di rating o gli stessi mercati finanziari.” Minori spazi di intervento per la politica, ma anche minore capacità di intervenire da parte dello Stato anche per il de-potenziamento del ruolo della politica.
Oggi è evidente che siamo in una situazione in cui i partiti sono asserragliati nelle istituzioni, mentre i cittadini si chiudono sempre più nella dimensione privata e individuale. È evidente che “la rappresentanza degli interessi diffusi cede il posto a quella degli interessi particolari e organizzati”. Così come evidente è il fatto che i partiti sembrano sempre più partiti senza “un popolo”, organizzazioni ormai incapaci di adempiere a quella funzione di collegamento tra politica istituzionale e partecipazione/interesse popolare.
E quindi?
La quarta risposta è l’insieme ragionato della reazione alle prime tre, ma nel quadro di una rielaborazione del pensiero politico che rivaluti il conflitto come categoria riattualizzata in una dimensione radicale e rivoluzionaria. Un movimento politico e sociale che assuma come riferimento le politiche, le metodologie, il pensiero di grandi personaggi della storia, da Gandhi a Mandela, da Luther King ai filosofi della politica e della scienza, insomma da tutti i grandi pensatori. Un movimento che sappia estrarre da quelle esperienze, da quelle culture, da quelle conoscenze il valore politico spendibile oggi nella costruzione di percorsi di liberazione dalla trappola neo liberista. Che sappia mettere al centro della politica i poveri e gli emarginati e che sappia inventare nuovi strumenti e meccanismi di ri-politicizzazione dal basso della vita pubblica. Prima di tutto con massicci investimenti nella cultura delle persone. Che sappia ridefinire il senso del lavoro e della partecipazione. I cittadini, soprattutto i più esclusi, culturalmente e materialmente, hanno bisogno di una liberazione politica e sociale. In mancanza, finiscono nelle mani del complottismo utilizzato come ulteriore strumento di de-politicizzazione. Il senso di impotenza di milioni di persone nei confronti di una realtà che non comprendono, ma subiscono, induce a forme irrazionali di lettura dei fenomeni con il rischio di innescare rivolte pericolose e senza esito.
Una forza politica che voglia fornire nuove prospettive ideali, nuove ragioni di lotta, una visione di futuro capace di coinvolgere milioni di persone, è su questi temi che deve lavorare, non sulle faccende di condominio.
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