“Portatemi un quaderno”. Storia di un viaggio tra le speranze
Chi fugge da un regime, dalla povertà o da un conflitto ha il diritto di calpestare terre più fortunate. Che sia scalzo o indossi scarpe alla moda. Che abbia la pelle scura o chiara
Domenica 5 settembre 2021. L’amore non corrisposto di Alì, 24enne pakistano, per una giovane donna afghana, è una storia nella storia in questo micro cosmo che risuona di voci appena sussurrate, incomprensibili per noi, che ci accolgono con gentilezza quando arriviamo nell’albergo dismesso, in provincia di Potenza, che li ospita dai primi di settembre.
A oltre dieci giorni dal suo arrivo in Italia il “doctor” ancora non ha le scarpe. Un pantalone celeste e una maglietta bianca che ha perso ormai il suo candore, di quelli che si vedono in corsia, sono la sua divisa d’ordinanza. Ai piedi un paio di infradito. E’ fuggito nel tempo di un istante, come quando ti sorprende il terremoto. Sul volo che da Kabul lo ha portato in Italia ha preso il posto di suo zio. In Afghanistan faceva il medico, dopo gli studi in Kazakistan. Ma ormai questa è storia passata e lo capiamo perché non ha molta voglia di raccontare chi era e cosa faceva. Per noi è il “doctor” intanto che impariamo a pronunciare il suo nome senza inciampare, ma soprattutto perché le sue generalità, come quelle dei suoi compagni di sventura è prudente non diffonderle. Fuggono, “non dall’Afghanistan”, ma dai talebani. Alcuni sono volti noti del giornalismo. Altri hanno collaborato con lo Stato italiano ed ora sono qui, in Italia, in attesa di sapere cosa ne sarà di loro.
Ci basta il primo incontro per capire che non è ancora il momento di tenere la testa bassa sui nostri taccuini. Per raccontare il dramma che stanno vivendo bisogna ascoltare e per farlo bisogna entrare nelle loro vite. Per guardare negli occhi questa umanità dolente è inevitabile dover frugare nella loro intimità.
Il “doctor” è poco più che un ragazzo per questo restiamo sorpresi quando, in inglese, ci dice che ha lasciato a Kabul la moglie e due figli. E’ qui con sua sorella. Abdurraziq è un collega. Scriveva per il Subhekabul il Giornale del mattino di Kabul. Lui vuole che usiamo il suo vero nome. I suoi genitori e le tre sorelle hanno lasciato Kabul per rifugiarsi in un villaggio, con loro nessun contatto al momento. Con le sue inchieste ha raccontato i crimini dei talebani contro le donne. E’ dispiaciuto di non poterci mostrare il suo lavoro: ha dovuto chiudere anche il suo account facebook dove ovviamente aveva postato i suoi articoli. Ora ne ha uno nuovo in cui ha scritto “vive a Potenza” e su cui ha postato la foto di due giornalisti che mostrano i segni di tortura a cui sono stati sottoposti dai talebani. “Questo è il mio migliore amico”, spiega mostrandoci il ragazzo di spalle, a sinistra dell’immagine in cui si vedono i segni delle botte. Abdurraziq ha voglia di scrivere, ma non ha il computer e così con timidezza ci chiede se la prossima volta possiamo portargli un quaderno.
Il capannello si allarga, arriva un uomo sorridente che mischiando italiano e inglese ci dice di essere un chirurgo addominale e che parla un poco la nostra lingua perché collaborava con gli italiani a Kabul. Si avvicinano anche due bambine, “le mie due figlie donne”, e un ragazzino su una bicicletta, “il figlio uomo”. “E lei mia moglie”. Il chirurgo si tocca la pancia per farci capire che la donna è incinta. E’ al quinto mese e “non sta molto bene”. In Afghanistan faceva l’infermiera. Il loro quarto figlio nascerà, forse, in Italia. Ci racconta che vuole andare a Milano da alcuni amici e poi in Germania dove vive suo fratello e dove la cognata fa il medico. “Qui ci troviamo bene, ma abbiamo fame. I bambini vogliono due bicchieri di latte alla colazione” ci dice accennando al fatto che quello che gli danno da mangiare non è sufficiente in quantità e qualità.
Venerdì 10 settembre. Torniamo nel centro d’accoglienza perché Alì ci ha chiesto di essere presenti al compleanno di Asiba. Le ha organizzato una sorpresa e aspetta noi per i festeggiamenti. Asiba a Kabul conduceva un programma tv su una importante rete nazionale. Ora però, in questo albergo nascosto tra i pini, la “star” televisiva è una di loro, anche se al contrario delle altre donne non copre i suoi lunghi capelli neri, è vestita all’occidentale, truccata perfettamente. Nemmeno Aysel (anche per lei la tutela di un nome inventato) copre i lunghi capelli neri: sembra quasi la gemella di Asiba. Le due ragazze si muovono sempre rimanendo l’una vicina all’altra.
La prima volta che le abbiamo incontrate ci hanno parlato di quello che erano e facevano a Kabul: la giornalista ci ha mostrato alcuni suoi video in cui intervistava altre donne. Aysel invece ci ha raccontato che studiava Medicina e che è stata insignita del titolo di migliore studentessa nella grande università da lei frequentata. Sole, in questo viaggio, si sono scelte per essere l’una sostegno dell’altra.
E così mentre aspettiamo che Alì, il mediatore innamorato, dia il via ai festeggiamenti ci intratteniamo all’esterno della struttura a chiacchierare con alcuni di loro. Alì ha ordinato una torta per Asiba. Quando ci fa cenno entriamo in una stanzetta dove sono riuniti tutti. Donne, uomini e bambini in attesa della festeggiata. Un applauso e i “buon compleanno” cancellano la verità di quel posto quando Asiba arriva.
La piccola torta a forma di farfalla sul tavolo adornato con gerbere rosse di stoffa sbiadita, palloncini colorati appesi qua e là nella stanza. La sorpresa è riuscita. La festeggiata nasconde a stento la sua commozione mentre abbraccia uno ad uno tutti i presenti.
Un giovane sui trent’anni versa da bere e porge il bicchiere a ognuno di noi: succo di frutta o aranciata per brindare. Sorride con lo sguardo perso nel vuoto. Sapremo poi che sta vivendo un momento di instabilità emotiva: in Afghanistan, dove faceva l’orafo, ha lasciato la sua famiglia con cui non è riuscito ad avere più contatti da quando ha lasciato il suo Paese. “Ha bisogno di un telefono”.
Domenica 12 settembre. “Asiba e Aysel stanotte sono fuggite”. E’ verso ora di pranzo che il mediatore culturale, Alì, ci informa di quanto accaduto. “Questa mattina abbiamo trovato la loro stanza vuota, non c’era più niente. Sono andate via”. Alì riesce a dire solo questo. E’ incredulo come tutti gli altri ma nel suo cuore ha un motivo in più per essere addolorato: ci confida che si era innamorato di Aysel. Non si dà pace per averla persa ancor prima di dichiararle il suo amore. Ci chiede, anzi ci supplica, di parlarle e dirle che lui è pronto a prendersi cura di lei con tutto il suo amore e con quel poco che guadagna. E anche se comprendiamo la sua delusione proviamo a fargli capire che la fuga delle due ragazze è nell’ordine delle cose: che sei giustificata se scappi di notte da un albergo dismesso situato in una periferia di una periferia. E’ nell’ordine delle cose provare a non essere soltanto una “profuga” mentre fino a pochi giorni prima eri un volto noto della tv o una studentessa brillante con tanti progetti per il futuro.
Nel pomeriggio, finalmente, le due ragazze si fanno vive con un messaggio. Si scusano, avvertiamo la sincerità delle loro parole, ci dicono che si vergognano per essere andate via così senza dire nulla, ma “dovevamo farlo”. Hanno raggiunto alcuni parenti in Svizzera.
Ottobre 2021. Quando arriviamo al centro di accoglienza sono tutti fuori a prendere aria. Avviamo la solita chiacchierata e pian piano si avvicinano, grandi e piccini. Abbiamo capito che i bambini sono ghiotti di patatine e così ne portiamo sempre un po’ per vederli felici. Il chirurgo ci indica un ragazzo alto, biondo: “sta male” ,“ha problemi cardiaci e ha bisogno di un medico”. Proviamo a capire con un operatore della struttura se ne sono al corrente, se faranno qualcosa, ci tranquillizza, dice che è tutto a posto. Non ci convince, così sulla via del ritorno decidiamo di rivolgere un appello attraverso il nostro giornale: ci sarà certamente un cardiologo che si farà avanti. Le cose non vanno come abbiamo sperato e pensiamo a un’altra soluzione.
Quando, qualche giorno dopo, torniamo nel piccolo mondo afghano in provincia di Potenza, il ragazzo biondo dagli occhi azzurri, ci dicono, è “fuggito”. E con lui la ragazza, ingegnere, che aveva bisogno di un computer “per lavorare”. Sua madre e il suo fratellino sono rimasti, probabilmente la raggiungeranno da qualche parte. Non c’è più nemmeno il signore sulla sessantina che ci aveva chiesto un paio di scarpe perché non ne poteva più di calzare delle scarpe da donna che aveva dovuto adattare a mo’ di pantofole. Ci accorgiamo subito che chi è rimasto non ha più voglia di sorridere come faceva i primi giorni. Essere in salvo dai talebani è solo un primo passo della nuova vita che li attende e di cui non riescono a immaginare il prosieguo. Forse a spaventarli adesso è la prospettiva di rimanere profughi per sempre.
Della conduttrice tv e della studentessa di Medicina non abbiamo saputo più nulla. Il doctor dopo aver messo a posto i documenti è stato trasferito in un’altra regione, così come il giornalista che nel frattempo ha iniziato a scrivere articoli per il nostro giornale permettendoci così di tenere aperta una finestra sull’Afghanistan anche ora che di quel Paese non si parla quasi più.
Il chirurgo, con tutta la sua famiglia, è andato via, senza passare dalla Commissione che avrebbe dovuto valutare il suo status di rifugiato e quello della sua famiglia. Sappiamo che li hanno fermati a Roma. Voleva raggiungere suo fratello in Germania, non sappiamo se lo abbia fatto. Il bambino che portava in grembo sua moglie dovrebbe essere nato. Del ragazzo col cuore malato non abbiamo fatto in tempo a sapere nulla di più del suo nome.
Siamo stati testimoni di queste vite in fuga per le quali avevamo immaginato un altro epilogo. Ci siamo vergognati di guardare i piedi di un medico senza scarpe. Ci siamo commossi a una festa a sorpresa. Noi, che avremmo dovuto fare solo il nostro lavoro e invece abbiamo compreso che non si può misurare la necessità della fuga dalle scarpe o dalle unghie laccate di rosso di una giovane donna, che in poche ore, ha perso tutto. Oggi raccontiamo altre vite in fuga, questa volta da una guerra che non lascia spazio alle polemiche sull’accoglienza. Restiamo qui a fare il nostro lavoro di giornalisti convinti che chi fugge da un regime, dalla povertà o da un conflitto abbia il diritto di calpestare terre più fortunate. Che sia scalzo o indossi scarpe alla moda. Che abbia la pelle scura o chiara.