Meridionale: dentro i versi di un’anima in bilico tra appartenenze e nostalgia di futuro
Una raccolta poetica insolita, la cui composizione frammentaria anziché generare un effetto di dispersione accresce invece la potenza delle immagini che si ricompongono a formare un mosaico di grande intensità
Meridionale. Frammenti di un mondo alla rovescia di Giuseppe Di Matteo, edito da 4 Punte Edizioni (112 pag., 12 euro), è una raccolta poetica insolita, la cui composizione frammentaria, già annunciata nel sottotitolo, anziché generare un effetto di dispersione accresce invece la potenza delle immagini, che si ricompongono a formare un mosaico di grande intensità. Gli echi ungarettiani e quasimodiani, vistosamente esibiti, si trasformano in relitti linguistici che assumono nuovi significati una volta integrati in un dettato poetico estremamente nitido, in cui la forza delle immagini assume maggiore concentrazione così dispersa nello spazio bianco.
Quasi dei moderni haiku, in cui il naufragio, il porto sepolto, l’uomo del Sud eternamente migrante e nostalgico, oltre che perdutamente inquieto, assurgono a dimensione esistenziale, a legame invisibile e tenace tra chi parte e chi resta a vegliare sul pianto del focolare. Immagini, visioni, suoni e respiri si incastrano nella geometria di un lungo addio, una partenza da Itaca che non prevede nostos, con dietro la curva / l’ultimo abbraccio / di mare. Tra pregiudizi, stereotipi, barricate e precarietà, il domani stesso si fa straniero. Tra andarsene o restare la vera sfida è appartenere. Ma l’appartenenza è spesso dolore irrisolto, antica ferita mai rimarginata.
A tratti ruvida, a tratti dolcissima, con un uso dissimulato ma sapiente di metafore e analogie, la langue poetica dell’autore scava in quella ferita, nei silenzi inesplorati, negli spazi irrisolti, nella carezza dei luoghi, nel pianto segreto di ogni fuga, che fa riscoprire misterioso fratello il migrante che arriva da altri Sud del mondo, anche lui con la sua ferita, il suo dolore, la sua notte di affetti perduti e che pure, con gli occhi tristi, sa parlare d’amore.
Nel narrare dei suoi affetti familiari e dei suoi ricordi giovanili, attraverso l’originalità di certe metafore e la presenza di semplici ritmi interni, Di Matteo sa incastonare il suo spazio-tempo all’interno di una dimensione più vasta e assoluta. I suoi frammenti ci restituiscono un Sud come categoria esistenziale, prima che geografica, come punto di partenza o di arrivo, a seconda di come lo si guardi. E se di geografia si parla è quella dei sentimenti più veri / la solidarietà della porta socchiusa / l’abbraccio dei panni stesi, quella che conoscevamo quando eravamo più umani. E in fondo lo stesso Nord, inevitabile approdo del viaggio, non è altro che impronta di mare / su queste cime ineguali.
Poesia rara e concentrata, incisa nello splendore aspro e fisico della sua terra che cela l’asprezza dell’esistenza, né cerca evasione, conforti, ma neanche disdegna di cantare i semi, i segni della speranza e della vita. Un controcanto alla realtà contemporanea sempre più complessa e disumanizzante. In questo mondo alla rovescia anche la scrittura si fa migrante, si scrive per attraversare un’altra notte / di affetti perduti; e scrivere è il fardello di un vivere senza mestiere, condanna più che privilegio.
Quello dell’uomo del Sud è davvero il canto di un uomo sconfitto? E la terra si dispone a lasciare un limbo senza speranza? Bisogna restare a vegliare rassegnati/ sul silenzio degli ulivi, restare a guardare / il niente / e d’impotenza morire, oppure salpare incontro al futuro e approdare in nuovi porti, migrando da un lavoro all’altro e portando in cuore, come un perenne inverno, il desiderio di tornare? Chi nasce al Sud ha già un destino d’esilio e di fuga: ecco ciò che sembrano dirci questi versi.
Su tutto, il respiro cangiante del mare, i colori del giorno, dall’alba all’imbrunire, la capacità di meravigliarsi ancora, di amare nonostante tutto. E intanto ci si disperde, i paesi si spopolano, l’ultimo vecchio si spegne col suo balcone, il focolare resta freddo e vuoto. Il cammino, il procedere, con uno sguardo interiore alle radici mai dimenticate che ci portiamo dentro, alle finestre di mare a cui affidiamo il nostro respiro, è il destino di tutti: viviamo in cammino / per non morire invano…che sia pure / ovunque voglia / la mia casa / casa mia.
«Chi crede di avere una stanza, / una sicura dimora, una stabile residenza, / non vede su quale carro di nomadi e carovana, / in che scia di presenze, in quale flusso, / in quale leggero e rapido transito / scorre» (Cesare Viviani). La percezione netta dei contorni si fonde con una corrente spirituale capace di animare la pupilla e caricarla di visione. Le linee del paesaggio ci mostrano via via l’immagine di un destino. Il nominare il quotidiano con puntigliosità, con verità, non impedisce al verso di passare dal piano della descrittività a quello della significatività universale.
I poeti, come scriveva Rilke, non sono soltanto coloro che passano ma anche coloro che accettano il passaggio, perché la sparizione può divenire parola e canto.