Mafia in Basilicata: la Dia e il bordello dei colletti bianchi
L’annunciata istituzione in Basilicata di una sezione della Direzione investigativa antimafia è una buona notizia, ma attenti al rischio dell’effetto placebo
L’annunciata istituzione, entro la primavera, in Basilicata di una sezione della Direzione investigativa antimafia è una buona notizia. Non è altrettanto dabbene il corteo retorico che ha preceduto da mesi quell’annuncio pronunciato ieri, 22 gennaio, dal Procuratore della Corte d’Appello di Potenza, Armando D’Alterio. Una batteria di comunicati stampa, post e selfie sui social, soprattutto di esponenti politici, hanno caldeggiato la richiesta più volte espressa dal procuratore della Repubblica di Potenza, Francesco Curcio. Per anni, anzi per decenni, si è taciuto, nessuno dei politici nostrani e dei magistrati transitati dalla Procura hanno mai così insistentemente o retoricamente sostenuto la necessità di una sezione Dia in Basilicata. Adesso c’è la corsa ad attestarsi una fetta piccola o grande di merito. Il merito sia chiaro è del procuratore Francesco Curcio.
La sensazione è che, sul piano politico, i vari senatori, deputati, consiglieri regionali abbiano un’idea circoscritta e limitata dei fenomeni criminali in Basilicata. Tutto lascia supporre che si abbia una visione militare della lotta alle mafie. In questa visione si afferma la convinzione che il crimine si combatte esclusivamente con più mezzi e più uomini armati. Per certi aspetti questa convinzione sarebbe figlia di una percezione molto parziale della realtà criminale lucana.
Qualcuno, probabilmente, pensa ancora ai picciotti con la coppola o ai guappi col coltello a serramanico. Qualcuno pensa che la criminalità sia terreno esclusivo di estorsori, spacciatori e clan di ogni varietà dediti a gestire imprese del malaffare. Qualcuno pensa che su quel terreno la guerra si combatta a suon di bombe, mitra, pistole e bottiglie incendiarie. Con questo approccio è facile occultare gli altri livelli della criminalità fatta a sistema e perciò meglio organizzata di qualunque clan tradizionale.
Lo si intuisce dalla lettura dei diversi comunicati stampa, diffusi in questi ultimi due anni, degli esponenti politici lucani, con un linguaggio dal leggero sapore propagandistico.
“La Dia può assestare un duro colpo al crimine organizzato”. È vero, è giusto, è utile. Il contrasto alla criminalità organizzata passa anche dal rinforzo di prerogative, mezzi e uomini a disposizione degli inquirenti. Bisogna intendersi, però, sul fatto che la criminalità non è soltanto quella dei clan efficacemente perseguitati dalla magistratura in questi ultimi anni, non è soltanto Martorano, Schettino, Riviezzi e compagnia bella. Non è soltanto spaccio, estorsione, gioco d’azzardo, furti di rame, usura, riciclaggio.
È corruzione, è assenza di trasparenza, è il bordello dei cosiddetti colletti bianchi che ricevono e offrono vantaggi nell’esercizio delle loro funzioni nell’arena della politica e delle imprese. È tutto quanto accade in alcune stanze delle istituzioni e in alcuni uffici della pubblica amministrazione a diversi livelli. È il silenzio che circonda gli accordi corruttivi e concussori in taluni settori dell’economia. Appalti truccati, furto di beni comuni, tangenti. Un bordello autorizzato da contorsionismi burocratici e formalismi normativi che coprono azioni illegittime travestite di legalità e trasparenza. Stiamo ancora aspettando novità investigative sull’affare eolico e sulle allegre autorizzazioni a deturpare il territorio, sulle anomalie nel “mercatino del lavoro” nelle aree dell’indotto petrolifero, su incarichi, appalti e affidamenti nella gestione dei rifiuti. Ci fermiamo qui tanto per non ripeterci. Le strategie di assalto alla diligenza delle risorse del Pnrr sono in atto da mesi e sarebbe importante evitare che opportunismi e ruberie distruggano le speranze di riscatto di questa terra,
Ecco, ci auguriamo che la Dia serva a rinforzare anche il contrasto alla criminalità, meglio organizzata in qualche zona franca della Basilicata, che fa riferimento ad ambienti politici, imprenditoriali, finanziari e bancari a livelli che i Martorano di turno neanche possono immaginare. La mafia in questo caso è un’altra cosa, e chiamarla mafia porta fuori strada. Ci riferiamo ad un altro tipo di criminalità organizzata. Una criminalità che ha un’altra storia, altri riti, liturgie, regole, e che non appare affatto assimilabile alla mafia tradizionalmente intesa e circoscritta nei codici che la identificano anche penalmente. È quella che approfitta delle risorse pubbliche, che sequestra l’aria dei cittadini e si mangia il futuro, che decide sui grandi appalti, che distribuisce opportunità, vantaggi, scorciatoie, carriere, nomine. È quella che si appropria delle decisioni strategiche e fa affari “in nome del popolo che mi ha eletto”. È quella che fa business per conto “del padrino che mi ha nominato”, o per conto “del prestanome che mi ha consentito di decuplicare il fatturato dell’impresa.” L’impegno della Dia sia concentrato anche sui cosiddetti reati assimilabili, in particolare l’associazione a delinquere. Perché da queste parti a delinquere con i guanti bianchi e il vestito da sera sono soprattutto gli iscritti alle confraternite dei colletti bianchi. Ci aspettiamo, nel futuro immediato, meno comunicati stampa per 4 grammi di hashish sequestrati a un ragazzo e più indagini sui reati che coinvolgono i finti verginelli in giacca e cravatta.
Tuttavia, chiudere le casate dei colletti bianchi e dei loro protettori è un compito che spetta prioritariamente alla politica. Non si può sbandierare la Dia come la soluzione di tutti i mali: la magistratura se vorrà farà il suo dovere, ma sono la politica e il mondo delle imprese ad avere la responsabilità di prevenire e sanzionare le sacche di mafiosità che si insinuano trasversalmente nei corpi sani delle istituzioni e delle organizzazioni di rappresentanza.