“Tutta la verità nient’altro che la verità”
Storia di uno stalking giudiziario ai danni di una giornalista da parte di una giudice che dovrebbe lasciare la toga
Il lavoro di un giornalista oscilla tra le inchieste che fa e i pugni che riceve, dritto in faccia, sotto forma di minacce e denunce. In ballo la verità nella trasparenza delle istituzioni e della società. A volte, le denunce sono usate per distruggere la volontà d’indagare di chi osa fare giornalismo d’inchiesta. Non c’è peggiore nemico/avversario di una persona che conosce tutti i funzionamenti della macchina giudiziaria per compiere una serie di blitz processuali. Da 5 anni, il carabiniere che mi porta le carte giudiziarie ne è rammaricato, e mi chiede: «Non hai ancora finito con queste?». Non è facile spiegare, perché la realtà supera l’immaginazione. Sono la testimone vivente, la sopravvissuta, ad uno spiegamento di forze da parte di chi conosce alla perfezione i riti giudiziari tanto da far scatenare una raffica di colpi che mi hanno piegata ma, per il momento, non mi hanno spezzata.
Inizio il mio lungo racconto. Gli ultimi cinque anni della mia vita di giornalista sono stati caratterizzati da una guerra a colpi di denunce da parte di una giudice di Potenza (attualmente in servizio a Salerno), Gerardina Romaniello. La dottoressa Romaniello mi ha denunciata per reati che vanno dalla diffamazione alla calunnia, dalla violazione del segreto professionale alla violazione della privacy, dalla simulazione di reato alle false dichiarazioni al pm e finanche alla ricettazione. La mia accusatrice è arrivata anche a deferirmi davanti al Collegio di disciplina dell’Ordine dei giornalisti. L’Ordine dei giornalisti conosce gli strumenti del mestiere e come è noto dovrebbe difendere la categoria. Nel mio caso questo non è accaduto.
Con la precisione di un chirurgo, la realtà è stata vivisezionata e ricomposta dalla giudice Romaniello per sostenere accuse che, come vedremo, fanno a pugni con la logica.
Partiamo dall’antefatto. Tutto nasce dall’inchiesta sulla morte di Elisa Presta, il 28 maggio 2013, durante un intervento chirurgico per la sostituzione di una valvola aortica in Cardiochirurgia all’ospedale San Carlo di Potenza. Nel 2014 vengo a conoscenza di questa morte sospetta, (nota soltanto agli ambienti ospedalieri e della Procura di Potenza) e precisamente il 29 agosto, il mio giornale pubblica un’inchiesta su quel decesso. Autori di quell’inchiesta siamo io e il collega Michele Finizio. Il cuore delle nuove prove rinvenute è una registrazione audio con una confessione shock, nella quale un chirurgo, parlando con un collega, confessa: “Io ho un cruccio, ho lasciato ammazzare deliberatamente una persona”. Per giorni in Basilicata tutti fanno finta di niente, nessun quotidiano locale riprende la notizia, neanche la Tgr, servizio pubblico! Un silenzio assordante.
Solo il 2 settembre, quando la notizia viene ripresa dalla testata giornalistica “Il Fatto Quotidiano”, precisamente dal collega Antonello Caporale, scoppia “il caso del reparto di Cardiochirurgia dell’ospedale S. Carlo”. Il caso Presta diventerà uno scandalo che apre tutte le edizioni dei telegiornali nazionali. Uno scoop di dimensioni gigantesche che documenta la confessione di un chirurgo. Il sito del mio giornale – Basilicata24.it – ha un boom di visite: condivisioni sui social, rilanci delle agenzie di stampa.
Dopo la pubblicazione dell’audio-confessione shock riceviamo la visita della polizia che ci sequestra il materiale audio. Ogni giornalista sa bene che la fonte delle proprie informazioni va tutela sempre, cosa che anch’io ho fatto, rifiutandomi di rispondere alle domande dei poliziotti. Nel mio lavoro so bene che la registrazione audio di una confessione “ho lasciato ammazzare una persona” è una prova incontrovertibile. Il mondo dell’ospedale è un mondo chiuso, blindato. I segreti sono taciuti o ignorati, e quando vengono fuori, molto spesso, questo accade per vendette o conflitti interni.
Sull’audio shock del medico che confessa l’episodio della morte in sala operatoria, mi sono confrontata con il collega fotoreporter autore di numerosi scoop sulla stampa internazionale, Antonio Pagnotta, il quale mi ha spiegato: Chi lo ha fatto, per ottenerlo, ha dovuto applicare una metodologia militare, da reparto intercettazioni dei Carabinieri: registrare in permanenza per potere catturare all’istante una confessione così scottante. Questo modus operandi indica l’esistenza di un grande archivio di file audio, e dunque di una grande capacità strategica nel raggiungere l’obiettivo e far uscire la verità».
Da questo nostro lavoro giornalistico scaturisce una accelerazione dell’inchiesta della Procura che aveva già aperto un fascicolo. Dopo il nostro articolo e il rilancio del “Il Fatto Quotidiano” si dimette tutto il management dell’azienda ospedaliera di Potenza e scattano le misure cautelari, arresti, nei confronti di 4 medici dell’ospedale San Carlo a cui seguirà un processo. Ripeto, noi abbiamo sempre tutelato l’identità della nostra fonte, sia dell’autore della registrazione scoop, sia di chi ce la consegnò.
Dopo la pubblicazione de “Il Fatto Quotidiano”, la stampa locale esce dal silenzio e comincia a parlare del caso. Si scatena l’inferno e, invece di approfondire il caso nella sua drammaticità (una donna morta) tutti sono solo interessati a scoprire l’identità dell’autore della registrazione/confessione. Cominciano la caccia alle streghe e le relative accuse. All’unisono tutti individuano nel dottor Fausto Saponara, cardiochirurgo al San Carlo e marito della giudice Romaniello, l’autore della registrazione.
Il 14 settembre esce un’intervista del dottor Fausto Saponara, su “Il Fatto Quotidiano” a firma di Antonello Caporale.
All’incontro tra Saponara e Caporale assiste sua moglie Gerardina Romaniello che il giornalista cita nell’intervista. Non si capisce bene se la consorte si fosse spogliata delle sue vesti di giudice per indossare il ruolo di moglie o viceversa. Antonello Caporale è un “generale” nella stampa nazionale. Si fa eco della dichiarazione di Saponara: «Io non ho svelato nessuna registrazione e ciò che sapevo l’ho comunicato per iscritto…» e Caporale lo descrive così «La pignoleria di un uomo che ha rotto il muro di protezioni».
Per dovere di cronaca va detto che finora l’autore della registrazione non è mai stato accertato, nessuna autorità giudiziaria ha certificato la sua identità, anzi nel processo svoltosi a Potenza dopo i fatti denunciati, la questione è stata stralciata.
La storia giudiziaria intanto ha fatto il suo corso, i medici accusati di omicidio colposo sono stati assolti nel processo di primo grado. Soltanto il primario è stato condannato per falso.
I nuovi fatti. Due anni dopo la nostra inchiesta sul caso Presta, nel 2016, si ritorna a parlare della vicenda, e precisamente il 17 marzo. Viene pubblicato dal Quotidiano del Sud- edizione Basilicata (senza la firma dell’autore dell’articolo) un audio registrazione, di dubbia provenienza, di una conversazione tra me, la giudice Romaniello e il dottor Saponara e di fatto vengono svelate le fonti di quella nostra inchiesta. Quel giornale ricostruisce tutto lo scandalo del S. Carlo con fantasiosi complotti e ritorsioni in danno non della povera signora morta, ma dell’ospedale S. Carlo. Quella registrazione era per me uno strumento di lavoro che in alcuni casi, specie nelle inchiste delicate, si utilizza come promemoria per evitare equivoci nell’ interpretazione dei fatti narrati dalle fonti, in particolare quando si tratta di aspetti molto tecnici.
Solo a pubblicazione avvenuta e con mio grande stupore mi rendo conto che qualcuno ha trafugato quella registrazione che riguardava una conversazione sulla morte della donna al San Carlo , ripeto, fatta per ragioni professionali e al solo scopo di promemoria, data la gravità dei fatti che erano stati preannunciati. Registrazione che io ero convinta di aver cancellato dopo la pubblicazione della mia inchiesta. Quello stesso giorno mi precipito alla Procura di Potenza per denunciare la sottrazione illegale di quel file.
La mia memoria comincia ad andare indietro nel tempo. Perché ho registrato l’incontro? Primo, perché documentare è la base del mestiere di chi fa il giornalista; secondo, come dicono gli africani, quando si va a cena con il diavolo bisogna portarsi una lunga forchetta.
La mia lunga forchetta era il registratore usato per motivi strettamente professionali nell’incontro con le mie fonti.
Il 17 marzo 2016 con quell’articolo del Quotidiano del Sud, inizia un nuovo vortice: il giornale pubblica quella conversazione dalla dubbia provenienza, senza nessuna perizia e senza alcuna verifica, attribuisce le identità vocali alla giudice Romaniello, al marito dott. Saponara e alla sottoscritta. Si scatena un altro inferno, e quello che nasceva come uno strumento di lavoro diventa in poco tempo il territorio delle accuse e delle contro accuse.
Passano 9 mesi dalla mia denuncia per la sottrazione illegale del file audio e il 22 dicembre 2016, finalmente, vengo ascoltata dal magistrato titolare dell’indagine, il pm Russo, su quanto da me denunciato.
Prima di essere ascoltata dal magistrato, e precisamente ai primi di novembre 2016, il mio legale riceve una richiesta da parte dell’avvocato Michele Napoli, legale all’epoca della mia odierna accusatrice, la dottoressa Romaniello, a fornire volontarie informazioni su quanto accaduto. Non ho niente da nascondere, e fiduciosa in un esito positivo e definitivo, puntuale, mi presento al cospetto di questo avvocato per farmi “interrogare”, convinta che anche Romaniello fosse, come me, parte lesa di quel furto/consegna a quel giornale.
La mia denuncia alla Procura viene archiviata. Vengo a conoscenza di un elemento ulteriore, e cioè il nome scritto sulla copertina del Cd con l’audio consegnato al Quotidiano della Basilicata, lo stesso nome della persona che mi ha aiutato a indossare il supporto per registrare. Questo ulteriore elemento avrebbe potuto contribuire a chiarire la vicenda. Malgrado la nostra resistenza, arriva l’archiviazione definitiva. Il pm Russo, titolare del fascicolo, pur ritenendo credibili le mie dichiarazioni, archivia. Perché nessuno è interessato a scoprire l’identità del ladro e di chi ha consegnato il Cd con una registrazione manipolata, frammentata?
Chi ha tratto vantaggio dalla pubblicazione di quell’audio? Chi aveva interesse a distruggere la reputazione di un magistrato e della direttrice del giornale Basilicata24? Io di sicuro no!
L’audio, di dubbia provenienza, viene consegnato alla Procura, dai giornalisti del Quotidiano, Leo Amato e Roberto Marino, lo stesso giorno della pubblicazione – anticipando di fatto un eventuale sequestro dell’Autorità giudiziaria nella loro redazione. La giudice Romaniello subisce così il procedimento di apertura di un fascicolo da parte della stessa Procura. E questo porta all’apertura del procedimento disciplinare da parte del Csm.
Nel dicembre 2017 vengo ascoltata dal pm Fresa nell’ambito del procedimento disciplinare alla giudice Romaniello. Il giudice Fresa mi ritiene credibile, e soprattutto ritiene credibile la trascrizione dell’audio a cura del Ctu della Procura, Aldo Gallo. In base a quella trascrizione la giudice viene punita con la sanzione minima della censura.
A questo punto comincia il valzer delle querele. La maggior parte delle accuse messe in piedi da Gerardina Romaniello, giudice di mestiere, è stata archiviata. Resta in piedi quella per false dichiarazioni al pm del Csm che oggi mi vede imputata in un processo al Tribunale di Roma dove farò finalmente chiarezza. Ma la Giudice intanto si inventa il “reato di complotto” ai suoi danni: reato inesistente, coniato dalla sua mente, per il quale infatti, e logicamente, non è aperto alcun fascicolo. Quella registrazione fu fatta, ripeto, in funzione dell’inchiesta pubblicata sul mio giornale. Nelle memorie di accusa, la giudice Romaniello sapientemente omette di circostanziare i fatti e cioè che in quell’incontro, da me registrato, mi viene fatto ascoltare l’audio shock-confessione su quanto avvenuto in sala operatoria quel 28 maggio 2013. E’ questa la ragione per cui ci siamo incontrati. Così come omette il fatto che è stato il marito, dott. Saponara, a venire nella nostra redazione, per sottoporci il caso, dato che io non ero a conoscenza della morte di Elisa Presta, come già detto.
Al termine del procedimento disciplinare la dottoressa Romaniello, in qualità di giudice della Repubblica ha ricevuto la punizione minima della “censura”. Cos’è una censura? È semplicemente una dichiarazione formale di biasimo, una lieve punizione, che sembra invece abbia fatto molti più danni al suo ego.
Il 18 maggio del 2018 il Csm la condanna alla censura. L’intero processo dinanzi al Csm che dura 2 ore e 43 minuti era ed è ancora in libero accesso sul sito di Radio Radicale. Ogni cittadino liberamente e senza l’autorizzazione di alcuno, può ascoltare la registrazione del processo cliccando qui.
La giudice Romaniello non accetta la punizione del Csm, fa opposizione ma la Cassazione conferma la sentenza. Ma lei continua ad alimentare il teorema complottista con cui mi accusa di aver preordinato tutto in combutta con altri.
L’obiettivo è uno solo: distruggere la direttrice e il suo giornale indipendente, Basilicata24, bloccando ipso facto il funzionamento della testata perché costretti a difendersi nelle aule dei tribunali. La giudice Romaniello dimentica che io sono parte lesa in questa storia kafkiana e che lo è anche il mio giornale. Il danno avuto come giornalista è incalcolabile. Proteggere le proprie fonti anche a rischio di andare in carcere, questo è sempre stato il mio convincimento. La diffusione, ad opera di un altro giornale, della registrazione di quella conversazione, ha di fatto reso pubbliche le fonti che io avevo sempre tutelato.
Il pm della Cassazione, che mi ha ascoltata nell’ambito del procedimento disciplinare alla giudice, mi ha ritenuta credibile, sancendo che ho fatto soltanto il mio lavoro di giornalista. Anche al tribunale di Catanzaro, competente su quello di Potenza essendo coinvolto un giudice, nelle archiviazioni delle querele a mio carico, emergerà sempre la mia credibilità. Ma questo non basta a placare la rabbia di «giustizia» della mia accusatrice-parte offesa – moglie di Fausto Saponara- giudice che si dichiara ingiustamente punita dal procedimento disciplinare del Csm a suo carico.
Prima di trascinarmi in tribunale, la mia giudice accusatrice, attraverso il suo avvocato di fiducia, Michele Napoli, invia a me e al collega Michele Finizio raccomandate e telegrammi legate da un unico filo rosso. In sintesi, “o mi dite come sono andate le cose (cioè come lei avrebbe voluto, ndr) o vi riterrò responsabili dei danni presenti e futuri da me patiti.”
Se so leggere la lingua di Dante Alighieri, questi telegrammi e queste raccomandate sono tentativi di intimidazione. E la giudice Romaniello è stata di parola. Ai telegrammi e alle raccomandate ha fatto seguito un vero e proprio blitz di querele. Cambiano le ipotesi di reato ma l’impianto delle sue accuse nei miei confronti è sempre lo stesso. La sua unica preoccupazione? Dimostrare che fu vittima di un complotto e dunque che il procedimento disciplinare del Csm nei suoi confronti è ingiusto, oltre che immeritato. Quella registrazione, secondo lei, l’avrei fatta in combutta con altre persone, per danneggiarla e non perché fossi interessata alla vicenda della signora Elisa Presta morta in Cardiochirurgia.
E poco importa se a seguito di quell’inchiesta furono arrestati 3 medici e si dimise tutto il management dell’ospedale San Carlo. Il mio interesse era esclusivamente giornalistico, fatto accertato anche dai giudici che si sono occupati della questione. Essere bersagliata da un tale delirio accusatorio supera ogni immaginazione. Urlare per iscritto di essere una vittima, come la giudice Romaniello continua a fare, non fa di lei una vittima.
Se complotto c’è stato, magari perché qualcuno in Tribunale, tra i suoi colleghi, voleva danneggiarla, è evidente che io non c’entro. Anzi si rivolga alle persone che ella stessa cita nelle carte processuali. Se complotto c’è stato da parte di chi avrebbe voluto decidere le sorti del processo a carico dei medici del San Carlo ipotizzando ad arte una trama da me ordita contro l’ospedale, come se l’inchiesta sulla donna morte fosse un optional giornalistico, io non c’entro, è evidente. Io non sono responsabile di quella divulgazione. Io sono parte lesa.
In questi lunghissimi e difficilissimi cinque anni ho sempre preferito che fosse la giustizia a fare il suo corso, e così è stato considerando le archiviazioni a mio carico arrivate nonostante l’opposizione della mia accusatrice. Tuttavia, ritengo che sia giunto il momento di rendere pubblica questa vicenda che ha preso una strada contorta e lastricata da uno spirito di vendetta che comincia ad essere inquietante.
Per la dottoressa Romaniello, la migliore difesa è l’attacco, anzi un blitz di attacchi, utilizzando il suo capro espiatorio preferito: la sottoscritta. Cosa che le permette di camuffare quello che è, di fatto, uno stalking giudiziario che mi ha reso la vita un inferno. Se c’è stato un complotto è stato costruito anche a mio danno.
E invece, per la giudice Romaniello, prima faccio un’inchiesta pubblicata sul giornale per cui lavoro e dirigo (un’inchiesta che avrà ampio risalto nazionale) e due anni dopo organizzo un suicidio professionale per far pubblicare ad un altro giornale la notizia che la mia inchiesta era un “complotto”, un “falso scoop” ai danni dell’ospedale San Carlo. Roba da harakiri, con cui squarcio il mio ventre di giornalista affinché ne beneficino quella ed altre testate che mi massacrano in prima pagina, per settimane. Lo so, vi gira la testa, ma non lo dico io, lo dice un giudice della nostra Repubblica, non in qualità di mia giudicante, ma in qualità di mia querelante. In quelle settimane finisco in prima pagina sulle testate locali accusata di avero ordito un complotto contro l’ospedale San Carlo: roba da Kafka.
Finanche il perito della Procura, Aldo Gallo, che farà una perizia sulla registrazione della conversazione tra me, Romaniello e Saponara, in cui la giudice ritiene, si ravvisi oltre ogni ragionevole dubbio il mio complotto ai suoi danni, verrà denunciato dalla stessa giudice. Sì, avete capito bene, il perito non di Giusi Cavallo, ma della Procura di Potenza che trascrive la registrazione parola per parola, respiro dopo respiro. Anche in questo caso un’archiviazione le darà torto. Ma lei non si rassegna e continua ad attaccare. La mia accusatrice, punita con la censura dal Csm, sentenza che lei impugna e che la Cassazione conferma definitivamente. Non si ferma mai, e certamente può permetterselo brava com’è con codici, cavilli e latinorum.
Un giudice mi archivia, lei rilancia scatenando uno tsunami giudiziario nei miei riguardi che al confronto Totò Riina appare un ladro di merendine. Certo ogni imputato dice che è innocente, ma nel mio caso oltre a dirlo io, che non sono nessuno, lo hanno detto i giudici che fino ad oggi mi hanno giudicata e archiviata sempre sullo stesso teorema ipotizzato dalla Romaniello.
Io ho fatto solo il mio lavoro. Sono stata sempre fedele alla regola aurea della mia professione, e cioè tutelare la fonte e il segreto professionale e l’ho fatto anche con lei, la mia giudice parte offesa, sempre, anche quando un altro giornale l’ha svelata e anche quando lei stessa e il marito si sono selati. Dinanzi al giudice di Roma che presiede l’unico processo in cui sono imputata, dovrò rispondere di questo presunto complotto che la logica e la consequenzialità dei fatti smontano. Tuttavia non posso dimenticare di essere anche una giornalista e analizzo i fatti e li comunico ai miei lettori per fare finalmente chiarezza.
Non saranno le querele della giudice Romaniello, né il timore per la mia incolumità psichica e fisica, che scandiscono le mie giornate da cinque, lunghissimi, anni a farmi indietreggiare. Ho fatto solo il mio lavoro. Sono venuta a conoscenza di un fatto grave (una morte in sala operatoria), ci ho lavorato sopra affinché quel fatto, di interesse pubblico, potesse essere raccontato ai cittadini. E poco importa cosa abbia spinto la mia fonte a consegnarmi le prove (confessione nell’audio shock). La logica del giornalismo vuole che il fatto sia esposto in pubblico, cioè pubblicato. Un giornalista pubblica le notizie assicurandosi tutti gli elementi utili alla ricostruzione di quel fatto. Il resto poi lo fanno gli inquirenti. Io ho fatto solo il mio lavoro/dovere, ripeto.
La mia accusatrice ha rispettato fino in fondo il suo ruolo e dovere di magistrato?
Le sarebbe bastato fare una rampa di scale per rivolgersi al procuratore capo, fornire gli elementi utili a far chiarezza su quella morte in sala operatoria. E questo non lo dico io ma il Csm che la condanna non per le mie dichiarazioni, ma dopo aver ascoltato/letto la trascrizione della registrazione audio della conversazione in cui lei parla insieme al marito, in modo libero e autonomo: per dirla tutta, lei non avrebbe dovuto proprio esserci in quel momento e in quel luogo. Invece ha preferito rivolgersi al nostro giornale. Forse perché lei stessa non aveva fiducia nella giustizia? Temeva i suoi colleghi magistrati?
Niente la placa, niente ferma la mia accusatrice che con nonchalance si prende la libertà di scrivere sentenze di condanna, a mezzo stampa, a mio carico senza che si sia ancora concluso un processo. Infatti di recente su un quotidiano locale Gerardina Romaniello ha firmato un “articolo” in cui riporta pesanti affermazioni nei miei confronti. Un fatto, questo, di inaudita gravità, considerato che la dottoressa Romaniello è un giudice. C’è da non crederci. La dignità e la credibilità (tornate di grande attualità) della magistratura non contano, non conta neanche la morte di Elisa Presta. Conta solo il danno presunto a un ego smisurato. Di nuovo, la realtà supera l’immaginazione.
Non so cosa potrà ancora accadere, lo scoprirò vivendo. Che continui pure a denunciarmi la giudice Romaniello, la disparità di ruoli e funzioni è evidente, tuttavia non mi piegherò alla morte civile che da cinque anni sta tentando di infliggermi con ogni mezzo. Non le darò il mio consenso. Per annientarmi servono ben altri colpi, magari di pistola.
A questo punto della storia la Giudice Romaniello abbia il coraggio di lasciare la toga e di affrontare i processi da normale cittadina. A conclusione di questo fin troppo lungo articolo, di cui mi scuso, mi corre l’obbligo di rivolgermi al Consiglio Superiore della Magistratura e porre legittime domande: può un semplice cittadino, se pur nella sua veste di giornalista, subire una raffica di denunce infondate che stordirebbe chiunque? Può un magistrato accanirsi perché non riesce ad accettare la punizione dell’organo supremo che controlla l’operato dei magistrati, tutti, senza distinzione? Perché un giudice, a conoscenza di fatti gravi configurabili in ipotesi di reato gravissime si rivolge a un giornale anziché all’istituzione che dovrebbe rappresentare? Perché una giudice si agita sui giornali lanciando accuse mentre ci sono procedimenti in corso per accertare la fondatezza delle ipotesi di reato da ella sventolate?