Mimmo Lucano: il vento ha scritto la mia storia

18 aprile 2021 | 19:29
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Mimmo Lucano: il vento ha scritto la mia storia
Mimmo Lucano

Come Riace, anche Badolato, Caulonia e altri comuni calabresi hanno provato a fronteggiare il loro primo problema: lo spopolamento, la fine delle comunità

Forse la risposta a tutto si trova sul confine che avanza e arretra, come fiato nel petto, sulla sabbia dove indugia il mare, una lavagna sui generis, dove le orme di chi arriva si palesano e presto svaniscono. Nel cuore dei migranti, la speranza che con quelle impronte possa svanire anche la memoria di un passato di sventure, che allungano ombre minacciose sul futuro. Il mare, dal canto suo, cancella le tracce e sembra promettere nuove opportunità. Svanisce ogni prova del passaggio su una frontiera che non esiste. Tutti i confini, se ci si pensa, sono una mera invenzione, sancita da carte e trattati, prezzo del sangue dei popoli.

Per anni, abbiamo ascoltato le criticità demografiche dello spopolamento dei paesi della cosiddetta “Italia interiore”. Per anni, abbiamo sentito e letto le critiche alla gestione dei migranti nella modalità accentrata, con centri sovrappopolati e spesso disumani.

Quello di cui si parla, è “carne viva”, come scriveva Alessandro Leogrande ne La frontiera (Feltrinelli, 2015) e non costituisce affatto una riflessione puramente teorica; chi fugge da condizioni terribili, lo fa sentendo “di aver oltrepassato una linea, di essersi aggrappato con le unghie a una nuova vita, rinunciando per sempre a un’altra”. Il libro di Leogrande dovrebbe esser propedeutico a qualsiasi considerazione sul traffico di carne umana attraverso il Mediterraneo, in quanto offre una fondamentale, meditata consapevolezza sulle condizioni di partenza dei migranti e sulle detenzioni in Libia o Sudan. Oltre a gettar luce su lucro e ruolo dei trafficanti di esseri umani, e sulle ambigue alleanze tra politici locali e dittatori.

L’unico, vero confine è la barriera artificiale eretta sulle coscienze, di popoli e governanti. “Quante mattanze silenziose si sono consumate. Quanti piccoli atti di ignavia o omissione si sono sommati gli uni agli altri”. Leogrande spiega bene il mondo dei cosiddetti “centri di accoglienza” italiani, spiegando che “essi sono forme paracarcerarie che rispondono con la detenzione a un illecito amministrativo dai contorni sostanzialmente indefiniti, i viaggi dei migranti che non possono accedere alle richieste d’asilo. L’universo paracarcerario è spesso peggiore di quello carcerario: per l’impreparazione di chi lo gestisce, per la mancanza di fondi, per le incertezze legislative e giuridiche sulla propria funzione”. Esso finisce per abbrutire chi vi sia “recluso”, poi condannato alla clandestinità e alla marginalità sociale.

Quanti naufragi si sono consumati, sotto gli occhi di avrebbe potuto – e dovuto – impedirli? Questo interrogativo propone con prepotenza un problema fondamentale, ineludibile: cosa fare quando i vincoli di una legge entrano in conflitto con quelli più profondi dell’umanità? In casi come questi, una risposta del tipo: «Stavo solo eseguendo degli ordini» non solleva alcuno dalle responsabilità personali, al di là di quelle collettive.

Un’alternativa ai centri di permanenza e una risposta al quesito appena riportato, è stata rappresentata, per anni, dall’esperienza di alcuni comuni calabresi, come Riace. Nella tradizione delle popolazioni contadine meridionali è inscritta, come un marchio, la cultura dell’ospitalità. Era una vocazione antica, ben correlata alla ristrettezza delle risorse e ai percorsi accidentati a cui il viaggiatore forestiero era costretto. In Maledetto Sud (Einaudi, 2013), Vito Teti ricorda la sorprendente generosità diffusa incontrata da Cesare Pavese nel confino di Brancaleone e da Carlo Levi (Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, 1945), nel corso del confino lucano, tra Aliano e Grassano. L’accoglienza “sembra aver svolto il ruolo di disinnescare la potenziale minacciosità dello straniero e del forestiero”, annota Teti. Soprattutto tra i meridionali, l’ospitalità è tuttora sentita come un valore comunitario di riferimento, con orgoglio. A proposito degli sbarchi di curdi in Calabria, a fine anni ’90, Vito Teti scrive così, sempre in Maledetto Sud: “il legame del regista Wim Wenders con Mimmo Lucano, sindaco di Riace, che ha fatto dell’ospitalità di profughi e immigrati una pratica culturale e politica, è stato decisivo per la realizzazione del suo cortometraggio il Volo nel 2009. In un intervento al municipio di Berlino, l’11 novembre 2009, dove si svolgeva il X summit dei premi Nobel per la pace, il regista dichiarava: «Ho visto un paese capace di risolvere, attraverso l’accoglienza, non tanto il problema dei rifugiati, ma il proprio problema: quello di continuare a esistere, di non morire a causa dello spopolamento e dell’immigrazione»”.

Come Riace, anche Badolato, Caulonia e altri comuni calabresi hanno provato a fronteggiare il loro primo problema: lo spopolamento, la fine delle comunità. Non certo l’immigrazione, vista, piuttosto, come una concreta opportunità di rinascita dalle ceneri dell’abbandono.

Nel 2020, Mimmo Lucano ha pubblicato Il fuorilegge (Feltrinelli), in cui propone un resoconto della sua attività politica nel Comune di Riace, partendo dalle prime sconfitte politiche per arrivare all’impegno che lo ha visto promotore, sindaco dal 2004 al 2018, dell’insieme di misure e iniziative che hanno fatto di Riace oggetto di attenzione di osservatori, da ogni parte del mondo. Comunque andranno a finire le vicende giudiziarie che hanno coinvolto Lucano – sulle quali sono fondamentali gli articoli che in questi giorni il giornalista Enrico Fierro ha pubblicato sulle pagine del quotidiano Domani -, l’idea di affrontare due temi complicati come l’accoglienza dei migranti e quello dello spopolamento dell’Italia interiore, traducendo entrambi in opportunità, assume una portata inevitabilmente storica, assai più rilevante degli interessi politici dei partiti e della burocrazia.

La storia e l’impegno del sindaco Lucano costituiscono un impedimento al respingimento di una persona o di un bambino che senza un documento potrebbero morire. Annota egli stesso che “il resto è secondario, quasi irrilevante”. Per sensibilità etica, per il rispetto dei diritti umani, per la Costituzione.

L’idea di ripopolare il paese per dare accoglienza ai curdi in arrivo, trasse origine dalle parole di un ragazzo curdo iraniano che, durante un’assemblea alla quale erano presenti Lucano e  monsignor Bregantini, dichiarò: “siamo un popolo in viaggio in cerca di liberazione. Questo è un paese di case ma senza gente. Noi abbiamo semplicemente bisogno di case. Questo potrebbe essere il nostro luogo”. Era l’inizio di tutto quello che abbiamo imparato a conoscere del cosiddetto “modello Riace”. La differenziata sul dorso degli asini, la ricerca dell’acqua da distribuire ai cittadini, come bene comune inalienabile, la rinascita del borgo con attività commerciali e artigianali, l’arrivo di turisti e visitatori.

Riace era diventata un’utopia reale affascinante, da ammirare e studiare. Addirittura, da esportare. Qualcuno lo ha chiamato modello, ma si tratta semplicemente di un insieme di buone pratiche, basate su quanto permesso dalle leggi vigenti, con l’orizzonte ultimo di una società sostenibile, nel nome della pace, della solidarietà, dell’antimafia, dell’antifascismo e dell’antirazzismo”. Sono ancora parole del sindaco Lucano, che racconta nel dettaglio l’epilogo della sua esperienza a capo dell’amministrazione riacese. Un’esperienza non facile, visto che già nel 2011 venivano a mancare le erogazioni di risorse destinate all’accoglienza, lasciando per mesi gli operatori senza stipendi e spingendo il sindaco a uno sciopero della fame. Questa circostanza spinse alla creazione di bonus/banconote che avrebbero consentito agli ospiti un minimo potere di acquisto e ai negozianti di trovare un mercato per far sopravvivere le proprie attività ai ritardi della burocrazia. Non è stata facile, la strada di questa ”utopia della normalità”. Tale scelta fu poi contestata al sindaco Lucano, come l’agibilità delle casette degli asini della fattoria didattica. Paradossalmente, diversi edifici pubblici, in Calabria – nel testo sono elencati alcuni di essi – sono privi di certificato di agibilità. “La differenza è che nelle fattorie ci sono gli asini”.