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Quale merito super partes?

5 ottobre 2020 | 12:14
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Quale merito super partes?

Tra meritocrazia arbitraria e il bisogno di più giustizia sociale

“Il merito è sempre il mio, il privilegio è sempre degli altri…” – così recita il mantra del risentito e in tal senso agisce una politica che fa leva sul risentimento? Cosa vuol dire “merito”? senza andare troppo lontano e riscoprendo solo la traccia etimologica del termine, notiamo come “merito” venga dal latino “mèritum”, a sua volta dal verbo “meréri”, con il significato di acquisire una porzione di qualcosa, guadagnare, (perfino) lucrare.

La radice mer- verrebbe dal greco μερίς, «meris», con il significato di “parte”, “pezzo”. Una serie di termini, ben diversi per prospettiva e rimandi semantici, si possono rintracciare come gravitanti attorno a questo nucleo: da “merenda” a “meretrice”. La costante, però, rimane il concetto di porzione, che con il tempo si è associata all’idea di appropriazione: afferro la mia parte, prendo ciò che mi spetta, nel bene o nel male. Si tratta di una economia del “proprio” che detta la sua presunta giustizia.  Il “proprium”, in latino, rimanda a quella giusta parte che fa degna una personalità, tanto che la parola “dignità” significherebbe “merito” ma con una accezione di credito morale. Traducendo, potremmo scrivere che ciò che spetta sarebbe la dignità, ma in realtà così facendo avremmo conferito al discorso una piega interpretativa ben precisa, assumendo che quella porzione di appropriazione sia in sé legittima, dovuta. Ma il merito è davvero in sé qualcosa di dovuto, o non è forse, semplicemente, la posta in gioco di rapporti di forza, di natura sociale, che di volta in volta sono messi in campo in una contesa che detta la linea morale, la determina, piuttosto che esserne costituita? Il punto è questo.

Rivendicare la propria parte è naturale. Fa parte, appunto, della logica che persegue lo sforzo di mantenere vivido il proprio stare al mondo, secondo i vari soggetti in campo. È naturale desiderare di conseguire il proprio. Ma la domanda è quanto/quando è giusta questa parte? La giustizia, in senso latino, è un concetto che attiene alla conformità della distribuzione delle parti rispetto alla legge e al diritto. In senso greco, invece, il concetto si riferisce a qualcosa che non attiene al diritto in senso artificiale, ma a una dimensione di giustizia divina che bene si spiega anche nell’ordine della “nemesi” (vendetta), nell’ottica di una ripartizione che interviene a valle a restituire verità alle parti in gioco ripristinando il posto per ciascuno. Occorre precisare che nel caso latino e in quello greco, il concetto di redistribuzione delle parti e del proprium si può in ogni caso riferire a un’idea di conformità e di adeguatezza a un presupposto teorico di fondo. In base a questo presupposto si può facilmente commisurare la propria “altezza”, la propria posizione, in una gerarchia di perfezione. La cultura del migliore era in realtà basata su un principio di conformità, pensato come necessario ma in sostanza del tutto arbitrario. Cosa accade, infatti, quando è proprio questo presupposto teorico di fondo a saltare e a far saltare conformità e adeguatezza? Accade che, pur essendo naturali pretese e ambizioni, non è altrettanto “naturale” l’appropriazione. Essa è frutto di contrattazioni, contese, conflitti ogni volta in gioco. E il campo in cui si gioca la partita è quello essenzialmente pragmatico della politica. È la politica, infatti, a co-decidere del luogo da assegnare alle parti coinvolte. Fermo restando che siamo tutti coinvolti, in qualità di giocatori, in queste partite. Quando si parla di meritocrazia, allora, si dovrebbe prestare la massima attenzione. Sono molte le mistificazioni. I concorsi che valorizzino il merito, il lavoro che valorizzi la dignità? Di cosa si parla esattamente? Di che natura sono i valori sbandierati?

Facciamo un esempio. Prendiamo il caso del concorso per i docenti del MIUR in Italia. Si è parlato moltissimo di merito, ma cosa determina il merito di cui si parla? Per definire una graduatoria, occorre necessariamente stabilire dei parametri, utili a indicare priorità tra i concorrenti. Ma questi parametri di che natura sono? Consideriamo, innanzi tutto, che tra le valutazioni passate e quelle presenti, c’è una differenza. Non si tratta di utilizzare gli stessi indicatori. Inoltre, più nello specifico, pensiamo per esempio al tema del valore/punteggio assegnato al fattore dell’esperienza: può accedere al concorso cosiddetto “straordinario” (il primo fissato in ordine temporale dal Ministero) solo chi abbia tre annualità di servizio nella scuola. Altre forme di insegnamento (università, formazione, ecc.) sono del tutto rimosse, intese come irrilevanti.

Allora, ci si chiede che senso abbia parlare di merito, come se questo garantisse a priori validità super partes, quando invece esso è proprio il frutto di un processo decisionale, approssimativo e arbitrario, condotto tra le parti e, per giunta, tra quelle dotate di maggiore forza? La vera questione è, da un punto di vista pragmatico, come concorrere a co-decidere del destino dei valori in campo. In tal senso, sarebbe opportuno parlare di merito in un orizzonte di giustizia sociale, in cui, appunto, tutte le parti siano debitamente coinvolte e vedano così riconosciuta la propria posizione e la propria dignità, il proprio pari diritto alla cittadinanza. Dal momento che la contemporaneità ha eliso un ordine superiore di giustizia assoluta, da cui discendano necessariamente misura ed equilibrio, sarebbe opportuno fare i conti con questo orizzonte di giustizia sociale.

Da soggetti coinvolti per lo più passivamente, dovremmo sforzarci di divenire parte attiva, portando il nostro contributo, facendoci carico di una visione più equa della redistribuzione dei ruoli e delle parti. Viceversa, non ci rimane che una mesta politica del risentimento, in cui è la sottrazione di diritto a governare i processi decisionali, agendo in direzione della privazione vendicativa, piuttosto che di una sana crescita collettiva. Occorrerebbe lavorare a far sì che, intanto, tutte le parti possano concorrere a giocarsi la propria partita sociale.

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