Licenziato senza pietà. Alla Fiat-Fca di Melfi gli operai sono uomini o numeri?

8 ottobre 2020 | 17:02
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Licenziato senza pietà. Alla Fiat-Fca di Melfi gli operai sono uomini o numeri?
Michele

La storia assurda di Michele, cacciato dalla fabbrica perché nessuno crede alla sua malattia. Glielo dicono in faccia: “sei solo un numero”

Michele, 49 anni, una moglie e due figli, tutti disoccupati. Dal 1994 alla Fiat di Melfi, un giorno non ce l’ha fatta più. È il 22 aprile 2016, va alla Stazione Carabinieri di San Nicola e denuncia tutto. “Sei solo un numero” gli dice il responsabile del personale, il giorno in cui per l’ennesima volta Michele prova a spiegare le sue ragioni.

Sta male ma nessuno gli crede

Ha gravi problemi di salute. Mentre è al lavoro, è costretto a fermarsi, anche per correre in ospedale. Più volte, da quando gli hanno cambiato reparto. Diagnosi mediche inequivocabili, ignorate dai dirigenti, dice lui, “anche dal medico del lavoro”: asma, intolleranza alle polveri, insufficienza respiratoria. Poi finalmente la diagnosi definitiva di una malattia a cui nessuno credeva: Sensibilità Chimica multipla ed elettro sensibilità. Lo hanno licenziato, ma solo dopo l’operaio ha avuto un po’ di giustizia. Michele ha lottato contro un clima ostile in una fabbrica dove “sei un numero”. Proprio così, il responsabile del personale glielo dice in faccia: “qui sei solo un numero”.

Ha lavorato a periodi alternati in reparti diversi, più anni nel reparto collaudi dove non accusava problemi.

Michele scopre nel 2005 di avere una malattia alle vie respiratorie che gli impedisce di lavorare in alcuni reparti dello stabilimento, laddove alcune polveri sono più intense, per questo motivo dopo aver svolto regolare visita medica aziendale viene assegnato al collaudo vetture, luogo, grazie a un microclima interno all’abitacolo della vettura, sicuramente meno nocivo al suo stato di salute.

Inizia il calvario

Nel 2015 però inizia il calvario che porterà al licenziamento. C’è una riorganizzazione aziendale in atto, dicono, perciò Michele deve passare al reparto “lastratura” e poi a diverse postazioni di montaggio con cambio mansioni. Ma Michele non può lavorare in quei reparti, l’ambiente operativo contrasta con le sue condizioni di salute.

L’operaio prova a spiegarlo in tutti i modi, scrive lettere, affronta colloqui con i superiori, presenta certificati medici di specialisti, diagnosi ospedaliere. Ma il medico del lavoro e il responsabile del personale, insistono: “sei idoneo, sei stato assegnato a quel reparto e a quella mansione e devi accettare.”

Le diagnosi al pronto soccorso, in ospedale, i ricoveri, le continue sospensioni del lavoro e allontanamenti dal reparto: crisi asmatiche, problemi respiratori e cardiaci. Nonostante queste evidenze, le mansioni a cui viene assegnato presentano controindicazioni e livelli di rischio incompatibili con le sue condizioni di salute: polveri, fumi, irritanti delle vie respiratorie…

Michele nonostante tutto prova a fare il suo dovere di operaio, con mille difficoltà e avvolto in un malessere fisico e psichico. Cerca di resistere a botte di Ventolin (un bronchio- dilatatore). Lo trattano come un matto, come uno che non vuole lavorar. Un giorno, il 21 aprile 2016, dall’infermeria dello Stabilimento si rifiutano di chiamare il 118. Fa da sé, chiama l’ambulanza e va in ospedale: dispnea.

Contestazioni e provvedimenti disciplinari: “stai in piedi qui e non muoverti”

Il giorno dopo gli contestano il suo rifiuto di lavorare. Lo lasciano seduto in un ufficio intimandogli di non muoversi da quella sedia, dopo circa 3 ore va via in direzione caserma dei Carabinieri: denuncia atti persecutori nei suoi confronti.

Mentre le condizioni di salute peggiorano, Michele è destinatario di continue contestazioni, richiami e provvedimenti disciplinari da parte dei superiori. Gli contestano gli accessi alla sala medica e difficoltà a lavorare sulla postazione, rifiuto di svolgere la mansione assegnata e 3 ore di multa, un giorno di sospensione.

Sono tante le vessazioni subite dall’operaio. Facciamo parlare lui, senza correggere una virgola:

“Sono le 14:00 del 6 giugno 2016. Sono nell’ufficio del responsabile della sicurezza. Dopo un lungo colloquio in cui spiego le mie difficoltà sulla postazione di lavoro (difficoltà respiratorie, oppressione al torace, sensazione di bruciore ai polmoni, secchezza e fastidio del cavo orale nonché senso di vertigini mi fa presente che ci sono delle mansioni di lavoro in laboratori qualità (dove ho maturato anni di esperienza tempi addietro) con aria microfiltrata per ragioni di lavorazioni in cui mi potrebbero spostare, ma adesso, visto il procedimento legale in corso si trova con le mani legate.

Dopo quest’ultima affermazione gli faccio presente che è ormai da svariati mesi con tutta la mia buona volontà e a fronte di ricoveri in ospedale e accessi al pronto soccorso con refertazione che evidenziava il mio disagio fisico cerco di trasmetterlo alle varie figure preposte, con cui mi sono confrontato. Queste, a tutti i livelli, dal supervisor al responsabile del personale passando dal gestore operativo nonché il medico incaricato e addirittura scrivendo una lettera al direttore di stabilimento, senza nessun esito.

Spiego all’ing. …. che se sono arrivato a questo punto è perché non sapevo più a chi rivolgermi vista l’evidente sofferenza fisica e mentale a cui sono sottoposto e che si ripercuoteva anche sulla mia famiglia.

Tornato dal supervisore mi comunica che devo restare seduto alla scrivania e attendere, dove resto fino a fine giornata senza esito…”

“Posso continuare?” Certo

“Il 7 giugno 2016 alle ore 14:00 a inizio turno chiedo al supervisor se c’erano state variazioni per la mia situazione, mi risponde che la postazione era quella e dovevo iniziare il lavoro. Faccio presente che non riesco proprio a stare in quella postazione a seguito dei continui malori susseguiti nel tempo. Senza ascoltare alcuna delle mie giustificazioni mi intima di prendere lavoro oppure mi contesta il fatto di rifiutarmi di lavorare, a questo punto mi rimette in attesa alla scrivania.

Alle 16:00 circa si presenta il supervisor con il gestore operativo sig.ra …, a cui riferisco per l’ennesima volta le mie gravi difficoltà. Queste restate inascoltate, mi intima di restare nel box Ute “in piedi” e che non mi potevo sedere, testuali parole.

Riferito l’accaduto ai delegati sindacali e fatto presente che si palesava un comportamento scorretto verso un dipendente, cambiano versione e attraverso il supervisor mi comunicano che devo restare “all’esterno del recinto (box ute) a vista e che potevo fare avanti e indietro” testuali parole, dove rimango fino a fine turno.

L’11 giugno alle 4 circa del mattino il supervisor mi chiama alla scrivania per farmi presente che mi doveva notificare la contestazione del 7 giugno a mano, ma prima di questo, mi informa che se mi volessi licenziare l’azienda dava da 20 a 30 mila euro. Gli rispondo che non avevo intenzioni di licenziarmi ma che è l’azienda che sta facendo di tutto per farlo e che la contestazione la doveva spedire a casa come la precedente. A questo punto il supervisor scrive sulla contestazione cartacea che mi rifiutavo di firmare e la legge in presenza di un testimone la team leader signora…  che la sottoscrive, poi ribadisce che sarà spedita a casa e che dalla ricezione avevo 5 giorni di tempo per giustificare. Due o tre minuti prima della fine del turno mi richiama cambiando versione dicendomi che la contestazione era da ritenersi notificata e che avevo 5 giorni da oggi per procedere con le giustificazioni e che, testuali parole, “non ti spediscono un cazzo a casa”.

Il licenziamento, la diagnosi e la resa

Per farla breve, Michele viene licenziato l’11 gennaio 2017. Ma pochi mesi dopo il professore Giuseppe Genovesi, specialista accreditato a livello internazionale, certifica che Michele è colpito da una malattia rara: Sensibilità Chimica multipla ed elettro sensibilità. Malattia rara già riconosciuta dalla Regione Basilicata nel 2006 e nel 2013. Nel gennaio 2019 anche la Commissione per l’accertamento di invalidità riconosce a Michele di essere invalido con riduzione permanente della capacità lavorativa. In quel verbale l’anamnesi conferma quanto svelato dall’operaio: Da anni asma bronchiale. Affetto da sensibilità chimica multipla, spondiloartrosi c-d-l, Gonartrosi. Pregresso intervento di colecistectomia per litiasi.

La diagnosi è inequivocabile:  Sindrome immunoneurotossica ambientale (sensibilità chimica multipla-mcs). Insufficienza Respiratoria cronica secondaria ad asma bronchiale. Note di spondilosi cervico-dorsolombare con focalità erniaria c5-c6. Iniziale gonartrosi. Pregressa colecistectomia per Litiasi. Acufeni soggettivi. Sindrome ansioso-depressiva.

Il 26 gennaio 2017 Michele impugna il licenziamento, ancor prima aveva fatto ricorso per essere spostato di reparto e di mansione, ma gli danno torto in tutti e due i casi. A questo punto l’operaio avrebbe potuto impugnare le sentenze, produrre nuovi ricorsi, ma ha mollato per sfinimento, si è arreso. Non ce l’ha fatta.

Tuttavia alcune domande sono necessarie: perché qualcuno ha costretto Michele al licenziamento, assegnandolo a reparti incompatibili con le sue condizioni di salute, mentre nel reparto collaudi, dove non sembrava avesse problemi, l’azienda assumeva altra gente? E perché quella gente ha preso il posto di Michele? Raccomandazioni? Segnalazioni? Parentele? Amici degli amici? E gli operai, in quella fabbrica, sono solo un numero?

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