La storia di una 72enne di Marsico Nuovo (Potenza), deceduta il 23 aprile
Gli ultimi dieci mesi di vita di Rosina sono racchiusi in un “diario” di sofferenza e speranza che suo marito Angelo ha voluto condividere con noi chiedendosi a voce alta “La sanità, italiana e lucana, è soltanto questo?”
La donna, 72 anni, di Marsico Nuovo (Potenza), è scomparsa il 23 aprile scorso, a 72 anni. Quel che resta è un racconto lucido e dettagliato del suo compagno di vita che ha avuto il privilegio e l’onere di assisterla senza mai darsi per vinto. L’uomo ha contingentato questa lunga sofferenza in mesi e in giorni scanditi da corse in ospedale, febbre, dolore, interventi, attese, rinvii.
Primo mese
Il calvario di Rosina comincia il 19 giugno 2019 al Policlinico Gemelli di Roma. Una visita in pronto soccorso decreta che la donna rischia il coma. Il liquor comprime il cervello, bisogna operare subito. Quattro giorni dopo i chirughi decidono di inserire un drenaggio alla testa con un catetere a livello addominale. Come tutti gli interventi è previsto che la paziente digiuni. Un infermiere avvisa il marito della donna che il giorno dopo si farà l’intervento. Quel giorno, dopo aver atteso fino alle 20, l’operazione viene rimandata “a data da destinarsi”. Successivamente per ben altre due volte l’intervento viene rinviato.
“Perché -si chiede il marito- viene data precedenza a persone arrivate tramite corsie preferenziali?”
Tre giorni dopo, il 26 giugno alle ore 18, finalmente la donna viene operata e dopo sei giorni dall’intervento viene dimessa: sarebbe dovuta ritornare dopo un mese per un controllo e un eventuale nuovo intervento per asportare una cisti al ponte cerebrale destro a cui era stata operata diciotto anni prima a Milano.
Secondo mese
Il 17 luglio, Rosina, che intanto è tornata a casa, perdendo l’equilibrio cade; l’ospedale di Roma, informato, consiglia di portarla all’ospedale di Potenza cosa che i familiari della donna puntualmente fanno. Con una tac alla testa si scopre un cattivo funzionamento del drenaggio. I medici del reparto di neurochirugia sostengono che debba essere sostituita la valvola e in seguito asportata la cisti.
Il marito della signora, si affida a i medici lucani, chiedendo loro se se la sentono di fare l’intervento. La sera stessa viene sostituita la valvola. La paziente dovrà attendere 20 giorni per effettuare una risonanza magnetica, “per mancanza di posti disponibili”. Dopo l’esame si decide di procedere all’asportazione della cisti. Viene operata, il 5 agosto. “E’ andato tutto bene” dicono i chirurghi al marito Angelo. Il 9 agosto la donna viene dimessa e trasferita al centro di riabilitazione di Acerenza.
Terzo mese
Il 16 agosto la paziente viene riportata all’ospedale San Carlo di Potenza, nello stesso reparto, per un controllo e per la rimozione dei punti. Le rassicurazioni dei medici sul decorso post operatorio e le parole di un medico alla paziente: “adesso sei in barella, la prossima volta devi venire camminando!” tranquillizzano Angelo. Rosina torna così ad Acerenza per proseguire la riabilitazione.
Sembra procedere tutto per il meglio fino al 30 agosto, quando torna la febbre e compare un gonfiore nell’area della ferita post intervento. Visitata da una neurologa del centro, che ritiene anomalo quel gonfiore, la donna, con il 118, viene portata nuovamente in ospedale a Potenza. Dopo la visita in pronto soccorso il ricovero in Medicina d’urgenza dove le viene somministrata tachipirina per far scendere la febbre. Risolto il problema con la temperatura viene dimessa “poiché non c’è nulla di grave, si è trattato di una semplice infezione alle vie urinarie”. Ancora una volta Rosina torna al centro riabilitativo per proseguire la terapia prescritta.
Quarto mese
E’ il 20 settembre quando non solo torna la febbre ma la ferita si gonfia nuovamente e in modo ancora più evidente. Nuova corsa in ospedale e il ricovero in Neurochirurgia. Fasciata la testa “come una mummia” rimarrà nell’ospedale potentino fino al 5 ottobre, giorno in cui viene rimandata ad Acerenza, nonostante la febbre. “La ferita, invece si era sgonfiata ed era fuorisciuto un liquido incolore che aveva bagnato il cuscino”.
Trascorre una settimana e il 12 ottobre la donna torna in ospedale con febbre e gonfiore. Questa volta i medici,-neurochirurghi e infettivologi- che visitano Rosina, riferiscono ai familiari che “la cosa è grave”. “Ho avuto l’impressione-racconta il marito- che giocassero alla patata bollente, nessun reparto voleva gestirla”. Alla fine della partita si decide di ricoverarla in Neurochirurgia.
Quinto mese
Il 17 ottobre risale la febbre, il gonfiore aumenta e Rosina comincia a perdere lucidità. Una radiografia al torace fa emergere una polmonite. Dal giorno dopo le sue condizioni peggiorano. “Chiedo al primario se ha visto mia moglie, al che lui mi dice che sta meglio. Io, meravigliato gli chiedo come può stare meglio se ha pure la polmonite? Allora il medico, imbarazzato, mi risponde di non sapere niente e, dopo aver controllato la cartella clinica, mi informa dell’intenzione di riportare mia moglie in sala operatoria per inserirle un drenaggio spinale esterno. Finito l’intervento mi riferisce che il gonfiore è sparito”. In effetti, il giorno dopo Rosina comincia a stare meglio e ritorna lucida.
Il 26 ottobre la donna comincia ad avvertire dolore alla pancia, le viene somministrata tachipirina, il dolore si attenua fino al giorno dopo quando, oltre al dolore torna la febbre.
Il 28 ottobre uno dei medici di turno notando che Rosina lamenta dolori forti le fa fare una tac al torace: “all’esito mi informa che si era irritato lo stomaco e che bisogna svuotarlo con una sonda dal naso (un giorno e mezzo senza mangiare e bere)”.
Nei giorni successivi aprono e chiudono il drenaggio per controllare la fuoriuscita del liquor mentre è aperto, quando è chiuso sale la febbre e Rosina perde lucidità. “In seguito mi viene riferito che bisogna internare il drenaggio spinale con un catetere all’addome, decidono di fare l’intervento e fanno digiunare mia moglie.”
Prima di procedere, però, rinviano l’intervento più volte giustificandosi che c’erano casi più urgenti. Il sospetto-dice Angelo- è che questi pazienti abbiano avuto la precedenza perché forse erano andati prima a fare visita a pagamento? “Mia moglie, una ruota di scorta!”
Il 14 novembre viene fatto il drenaggio esterno all’addome.
Sesto mese
Il 22 novembre Rosina viene dimessa dal San Carlo, per essere trasferita ad Acerenza per la riabilitazione, nonostante la febbre, e per questo motivo nel centro acheruntino non possono farle la terapia. Il 13 dicembre, avendo ancora la temperatura alta, dalla struttura di Acerenza la rimandano in ospedale. Dopo vari controlli viene trasferita nel reparto di Malattie Infettive. “Mi venne detto che aveva contratto un’infezione al sangue (la sepsi)”
Settimo mese
Il 20 dicembre Rosina ha ancora la febbre, i medici cambiamo antibiotici, continuano a somministrare tachipirina e finalmente per circa 15 giorni la febbre scompare.
“Il 2 gennaio 2020 mi dicono domani tornate a casa, il pomeriggio però la febbre si ripresenta a 39,5. Non era stata mai così alta. Nei giorni seguenti provano altre terapie”.
L’11 gennaio Rosina viene dimessa, rimane a casa fino al 18 quando, il 118 che va a riprenderla con la febbre per riportata al San Carlo di Potenza, nuovamente in Medicina Interna.
Ottavo mese
“Il 28 gennaio -ricorda il marito-mi viene detto che il giorno successivo mia moglie sarebbe stata dimessa, il giorno dopo però torna la febbre a cui si aggiungono tosse, affaticamento e difficoltà a deglutire. Dopo qualche giorno il primario mi dice che bisogna alimentarla con una sonda dal naso. Al mio rifiuto mi invitano a riportarla a casa, cosa che faccio il 5 febbraio.
Comincio ad alimentare mia moglie frullando il cibo che così riesce ad ingoiare senza difficoltà, continua a seguire la terapia prescritta in ospedale, ma ogni dieci giorni ricompare la febbre e ogni volta cambiamo farmaci , sempre dietro prescrizione dei medici.
L’8 marzo si aggrava nuovamente, la febbre sale, e viene riportata in pronto soccorso. Dopo diverse interlocuzioni, un neurochirugo più umano e sensibile, e capace di porsi in modo comprensivo con noi familiari, mi informa che mia moglie deve essere nuovamente operata per poter sostituire la valvola con il drenaggio. La sera stessa viene effettuato l’intervento. Il 12 marzo torniamo a casa dove continua la terapia farmacologica”.
Nono mese
Il 20 aprile il medico che analizza gli esami del sangue della donna ritiene che non siano male. Tutto sembra procedere abbastanza bene.
Decimo mese
Il 21 aprile febbre alta e difficoltà di respirazione, Rosina ha bisogno dell’ossigeno. La febbre si abbassa da sola, senza farmaci, ma la 72enne smette di mangiare. Due giorni dopo arriva quella che Angelo chiama “la liberazione dalla sofferenza” . Angelo scrive la parola fine al “diario della sofferenza”.
L’uomo seppure profondamente addolorato per la scomparsa della moglie, pone una serie di domande. Non cerca giustizia, “forse, chissà, doveva andare così”, ma al tempo stesso non può non domandarsi “è questa la sanità pubblica?”
Ed ancora: “Come mai la maggior parte del personale dei vari reparti non indossa e non espone la targhetta di identificazione? Forse per mimetizzarsi?
Come mai entrando in ospedale senza infezioni se ne contraggono così tante?
Prima di dimettere le persone perché non accertano le condizioni in cui si trovano senza farle ritornare più volte (come noi che siamo dovuti tornare 8 volte)? Tutto ciò non causa un costo ulteriore ed eccessivo per il Servizio sanitario nazionale? Perché non risparmiare? Per incapacità o altro?
Perché non dialogate con i centri sanitari esterni e magari risolvere problemi che si sarebbero potuti evitare?
“Mi chiedo perché non volevate che mi prendessi cura di mia moglie, impossibilitata anche ad usare un cellulare per la gravità delle sue condizioni, considerato che non potevate garantirle continua vicinanza?” Angelo ha dovuto insistere per rimanere accanto a Rosina in ospedale. Ha guardato in faccia il dolore e la sofferenza fino alla fine.