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Coronavirus, crisi economica e fallimento delle politiche europee

27 marzo 2020 | 10:24
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Coronavirus, crisi economica e fallimento delle politiche europee

Che cosa non ha funzionato il Europa. Analisi e soluzioni

Complice il coronavirus ho letto il libro “Austerità, quando funziona e quando no” di Alesina, Favero, Giavazzi. Lettura non certamente oziosa o riempitiva ma preparatoria alla comprensione degli approcci culturali che ci saranno sulla gestione post emergenza sanitaria dell’economia italiana ed europea. Non a caso quando Mario Draghi, uno dei massimi esponenti di questa cultura, parla di crisi non ciclica legata all’emergenza sanitaria e dice che va risolta a debito perché la crisi “non è colpa di chi la soffre” genera scalpore.

Premessa

Concordo sull’austerità come valore quando si parla di spesa pubblica ma nella accezione di Enrico Berlinguer, richiamata da De Bortoli nella prefazione al libro, ossia “Austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia …” così come concordo sul fatto che un rapporto Debito / PIL, che è ormai al 140%, pre-crisi sanitaria, esponga il Paese a seri rischi minandone l’autonomia politica e l’autorevolezza sul piano internazionale. Concordo infine sul fatto che un approccio serio all’austerità non comprometta il consenso elettorale di quei politici e partiti che la propugnano in modo credibile e nel senso dato al termine da Berlinguer. Qui finiscono le concordanze. L’austerità, intesa come impedimento a sciupare i soldi pubblici, è un imperativo morale ma mai può essere una variabile strategica per rilanciare lo sviluppo e l’equilibrio dei conti pubblici, come pare sostengano gli autori del libro.

Il libro affronta il tema del risanamento delle finanze pubbliche mettendo a confronto due diversi approcci: l’aumento delle tasse e il taglio della spesa. Già qui c’è, a mio modo di vedere, il primo grande limite nell’analisi. Prima di parlare di taglio alle spese, o di aumento delle tasse, occorre capire se le cause del disavanzo pubblico derivino da troppe spese o da poche tasse.

Il fallimento delle politiche europee di finanza pubblica

L’andamento delle economie europee dal 2008, anno della crisi, a tutto il 2018 è stato molto diverso nei vari paesi europei. Mentre nel 2008 la dimensione dell’economia tedesca era grosso modo una volta e mezza quella dell’Italia (2.546 miliardi di euro vs.  i 1.640 miliardi dell’Italia) dopo 10 anni di austerità europea, nel 2018, è diventata quasi il doppio (3.344 miliardi di euro vs 1.765). L’economia tedesca nel periodo è cresciuta del 31,3% e quella italiana del 7,8%.

Il Lussemburgo, che ha mezzo milione di abitanti, ha avuto una crescita di periodo di quasi il 60%. L’Olanda quasi del 20% e la Francia del 18%.

La Grecia, fanalino di coda, grazie alle politiche europee, ha perso nel contempo il 23%, quasi un quarto, di PIL e la Spagna (+8,4%) arranca insieme all’Italia (+7,8%).

La Gran Bretagna, che non ha mai fatto parte dell’area euro, è, dopo la Germania, l’economia che è cresciuta di più con il 21,2%.

A causa della stabilità della popolazione europea questi andamenti si riflettono per intero sul PIL pro capite, ossia sulla ricchezza media prodotta per abitante. Insomma i tedeschi sono sempre più ricchi, la Francia cresce di quasi due terzi rispetto alla Germania, il Lussemburgo vola e la Grecia precipita.

Ma almeno i bilanci pubblici sono stati risanati?

Mentre dal 2008 al 2018 il rapporto Debito / PIL della Germania passa dal 65,1 % al 61,9%, in Lussemburgo rimane inesistente, dal 14,9% al 21%, in Olanda dal 54,7% passa al 52,4% e nei paesi del Sud Europa, invece, il rapporto Debito / PIL passa in Italia dal 106,1% al 134,8%, in Spagna dal 39,7% al 97,6%, in Grecia esplode, grazie ai piani imposti dalla famigerata Troika e dal MES, dal 109,4% al 181,2% e persino la Francia soffre passando dal 68,8% al 98,4%.

La Francia riesce però ad incrementare il suo PIL finanziandolo con un aumento del debito che serve a pagare le politiche sociali che sono tra le più alte d’Europa.

In Grecia o i seguaci di Friedman hanno fallito miseramente l’occasione storica, per dimostrare che le loro teorie sono corrette, o le ricette imposte dalla Troika sono state in realtà una clava utilizzata da un popolo per colpire un altro dei popoli dell’Unione. ‘Tertium non datur’ e in entrambi i casi fidarsi del MES e della Troika è suicida.

Non solo i bilanci pubblici non sono stati risanati ma i poveri sono aumentati a dismisura in tutta Europa. Proprio tutta? No! Non in Germania, dove sono rimasti sostanzialmente stabili. Poco in Francia, che ha finanziato lo stato sociale e la crescita del PIL incrementando il debito pubblico. I poveri sono aumentati moltissimo in Grecia, Spagna e Italia.

Perché è importante capire cosa non ha funzionato in Europa

A pagina 71 del libro si scrive: “In altre parole, la tempistica delle politiche fiscali è questione complicata; come diceva Milton Friedman, ci sono ritardi lunghi e variabili tra il momento in cui si decide una politica, la sua attuazione e il prodursi dei suoi effetti.”

Troppo comodo. Passa il tempo, cambiano le variabili in gioco, cambia la congiuntura e il ciclo economico e la verifica, almeno empirica di quanto teorizzato, non mai è possibile perché non si riescono mai ad isolare i rapporti causa effetto. Capisco che l’economia sia una scienza sociale e di conseguenza che i rigori del metodo scientifico siano inapplicabili ma, insomma! quando è troppo è troppo. L’economia da scienza sociale, e quindi fallace, non può tramutarsi in Fede. D’altro canto, in tutto il libro, ci sono un insieme di affermazioni apodittiche e non dimostrabili. Un esempio a pagina 67. “… i consumi privati possono agire immediatamente all’annuncio di un taglio sistematico della spesa pubblica, come ci hanno insegnato Milton Friedman e Franco Modigliani settanta anni fa”. Appunto, settanta anni fa. Quello che è successo, almeno in Italia, è che all’annuncio della drastica e repentina riforma c.d. Fornero i consumatori hanno smesso di consumare con conseguenze sul PIL. Altro che spendere di più perché si aspettavano in futuro minor pagamento di imposte, come recita il libro.

Prendiamo la Grecia dove c’è stato un piano di austerità di magnitudine enorme intorno al 20% del PIL (fatto per il 59% di tagli alle spese e per il 41% di maggiori imposte). Dal 2016 fino al 2018 c’è un avanzo positivo sul PIL di poco superiore, come media del periodo, allo 0,7%. Io credo che qualcuno, specialmente l’Europa e la Troika, dovrebbe dire tra quanto tempo la Grecia uscirà dal tunnel. Stando ai dati, ipotizzando che nulla di negativo appaia all’orizzonte, ci vorranno dai 70 ai 140 anni per tornare, con questi surplus, al rapporto Debito / Pil di prima della crisi e, soprattutto, dell’intervento della Troika. Nel frattempo Germania, Lussemburgo e Olanda crescono nel triennio in un range cha va dall’1 al 3%, mentre Francia, Spagna e Italia mostrano un deficit corrente negativo stabilmente intorno al -3%. Il divario con la Germania diventa baratro!

Gli stessi autori approcciano infatti la questione greca con le pinze e costretti perché ometterla sarebbe stato peggio. Occorre, infatti, attendere pagina 235 per leggere il paragrafo “La tragedia greca”. Si ammette che tutti sapevano che i piani imposti dalla Troika non avrebbero funzionato, e allora perché imporre la tragedia? ma quello che suona stupefacente è che neanche in questo paragrafo si evidenzino i costi sociali della politica imposta alla Grecia e che sono stati immani.

Milton Friedman, citato in continuazione, teorizzava: “Gli affari hanno una e sola responsabilità sociale, quella di utilizzare le proprie risorse e svolgere attività destinate ad aumentare i profitti.”

Gli autori insistono in questa visione antistorica che ha prodotto l’inquinamento globale, la crescita delle disuguaglianze e la precipitazione dei rapporti sociali verso un nuovo Medioevo. A nulla servono i richiami dell’ONU agli investimenti socialmente responsabili e alle procedure di engagement verso chi non li fa.

Quello che è successo nella gestione della crisi greca è stato il trasferimento del principio di irresponsabilità sociale dalla impresa allo Stato e alle politiche economiche relative.  Stupisce che in tutto il paragrafo, e in tutto il libro, non si sottolineino con la necessaria forza i costi sociali e i tanti morti, per suicidi e mancanze di cure sanitarie e indigenza estrema, causati degli errori della Troika. Si ragiona come se il problema non riguardasse la sfera delle economie nazionali, oltre che delle coscienze dei governanti e dei loro consulenti. Regling, a capo del MES, in occasione della crisi greca consigliò il governo greco di non pagare le pensioni pur di pagare la rata del prestito al FMI. Di recente ha affermato di volere Spagna e Italia in ginocchio, anche se poi l’affermazione è stata smentita dal suo ufficio stampa e visti i precedenti non so con quanta credibilità. Ma come si può chiedere all’Italia di firmare il MES se a capo di questo organismo continua ad esserci questo signore? Come si fa a non chiedersi come sia possibile che, come affermato dal solito Regling poco tempo fa, il debito attuale dell’Italia a quasi il 140% sia sostenibile quando nel 2010 il debito della stessa Italia, intorno al 102%, e della Grecia, intorno al 109%, ha determinato il putiferio del governo Monti e della Troika? Regling non può pensare di fare come il lupo della favola perché noi non siamo Cappuccetto Rosso e fare all’Italia quello che ha fatto lui e la Troika alla Grecia aggrava la crisi dell’Europa e determina un nuovo inizio di ostilità e diffidenza reciproca tra i popoli europei.

A mio modo di vedere gli autori del libro hanno perso una occasione per condannare con parole dure l’atteggiamento dei governi europei e dell’Eurogruppo. Il sogno europeo in molti è già defunto e forse, grazie al coronavirus, si inizia a comprendere che l’Eurogruppo a trazione tedesca rischia di diventare il becchino dell’Euro e dell’Europa. Vedremo se i tedeschi vorranno assumersi l’onere di quest’altra tragedia europea, dopo quelle che hanno causato nel secolo scorso e pochi anni fa in Grecia. Una cosa è l’austerità un’altra cosa è la distruzione e l’assoggettamento dei popoli.

Gli stati del Sud Europa sono spendaccioni? È la spesa pubblica a causare la crisi dei debiti sovrani?

La spesa sociale pro capite dal 2008 al 2018 in Germania è cresciuta del 38%, in Italia del 13%. In Germania la spesa sociale annua pro capite è pari a 11.680 euro in Italia di 8.340 euro. In Lussemburgo di 20.845 euro, in Olanda di 12.827 e in Grecia di 4.222. Secondo voi dove ci saranno meno morti per coronavirus e dove di più? La spesa sociale pro capite in Lussemburgo è più alta del PIL pro capite greco (17.197 euro anno) ed è pari a due terzi del PIL pro capite italiano (29.188 euro anno).

Non capisco? Gli stati che hanno maggior debito sono quelli che spendono meno e quelli che hanno minor debito sono quelli che spendono di più per la spesa sociale? Cosa altro dobbiamo tagliare negli spendaccioni stati del Sud Europa? Come si fa quindi ad affermare che il disavanzo pubblico deriva dalla spesa sociale? Quali sono le evidenze a supporto? Gli autori ignorano del tutto il tema.

In aggiunta un significato ha tagliare le spese in Lussemburgo e un altro significato, del tutto diverso, ha tagliarle in Grecia. E appare altrettanto evidente che tutte le politiche europee abbiano prodotto un aumento della divergenza nella qualità di vita dei cittadini. Al danno spesso si unisce la beffa, come quando si magnifica, ad esempio, la sanità e lo stile di vita del Lussemburgo, della Germania e degli altri paesi nordici a scapito di quella greca e dei paesi del Mediterraneo. Questo deriva dal fatto che i paesi del Sud Europa non fanno le riforme? Si può avere un elenco di queste riforme una buona volta?

Quando si dirà a muso duro agli spocchiosi olandesi e lussemburghesi che campano alla grande facendo dumping fiscale e non facendo pagare le imposte in Grecia agli oligarchi greci?

Questi aspetti sono completamente assenti nell’analisi degli autori del libro e lo trovo francamente stupefacente.

Immagino che Alesina, Giavazzi e Favero rispondano che la sanità bisogna potersela permettere e se, per esempio, i nigeriani non possono permettersela il problema è dei nigeriani. Già, ma la Nigeria non fa parte dell’Europa. C’è qualcuno che ci sta raccontando che l’Europa diventerà una unica nazione ma il presupposto di qualsiasi nazione e di qualsiasi costituzione è l’uguaglianza dei diritti e doveri rispetto allo Stato, ossia, tradotto anche per chi non vuol capire, stesse tasse e stessi servizi o per lo meno lo stesso livello dei servizi essenziali. Qui abbiamo chi campa alla grande facendo da ‘refugium paccatorum’ di tutti i capitali leciti e no! Ma veramente qualcuno può pensare che l’Europa possa essere solo moneta unica e fiscal compact e evasione fiscale legalizzata?

In ogni caso se servisse tagliare la spesa nessuno si tira indietro, ma i dati dimostrano che non solo non serve ma che peggiora le cose.

Se si lascia la difesa dell’ovvio ai sovranisti e populisti non ci si può stupire del loro successo. E attenzione a parlare di politiche di rigore in questa circostanza dove, finita l’emergenza, tutto serve tranne che Regling e le regole del MES.

Le omissioni del libro

La prima omissione del libro è quella relativa alla influenza delle banche centrali.

Tutto il capitolo ‘Episodi di austerità espansiva fino al 2007’, è inutile. Come è inutile il caso della Gran Bretagna. Perché in tutto il capitolo, che riguarda casi precedenti alla introduzione della moneta unica, non si fa riferimento al ruolo avuto nelle crisi e nei piani di austerità dalle Banche Centrali. Così come il caso del governo Osborne in Gran Bretagna che ha potuto portare i risultati eccezionali del risanamento pubblico grazie all’aiuto della sua Banca Centrale che ha acquistato titoli di Stato senza scadenza. Le politiche di Osborne, come ci ricorda il libro, furono aspramente contestate del FMI, salvo poi a chiedere scusa al governo inglese quando i risultati smentirono le previsioni del FMI. A tale proposito quando il FMI e il MES e Regling chiederanno scusa alla Grecia? Atteggiamento da vigliacchi quello del FMI: forti con i deboli e deboli con i forti!

Il punto in realtà è che nella visione calvinista dei popoli del Nord la povertà è una colpa e quindi va punita. È talmente vero che lo stesso Draghi giustifica il ricorso al debito per uscire dalla crisi sanitaria affermando che chi soffre della perdita di reddito in questa circostanza non ha colpa. Quindi se non ha colpa, al contrario dei greci, va salvato.

La cosa potrebbe avere anche un certo fascino se ci fosse una certa equità nel considerare le colpe. Nella realtà delle cose le colpe dei potenti sono sempre perdonate, come i debiti di guerra della Germania. La crisi greca la pagano i poveri mentre gli oligarchi salvano ricchezze e capitali in Lussemburgo e Olanda. In realtà c’è anche una certa coerenza di pensiero. Se la povertà è una colpa cosa c’entrano gli oligarchi e il ceto dirigente greco con la crisi? Quindi i poveri greci, poiché il loro governo, come tutti in Europa, qualche trucchetto contabile l’ha fatto vanno puniti.

Sarebbe stato utile interrogarsi sul ruolo della BCE, che non è il garante ultimo del debito degli Stati sovrani introducendo così un ulteriore fattore di divergenza tra le economie con lo spread. Sarebbe stato utile evidenziare la ‘manovrabilità’ dello spread, più che dimostrata, a fini di pressione politica. Questo va assolutamente impedito se si vuole che l’Europa sopravviva.

Come fanno gli autori a dimenticare che la Grecia, in piena crisi, ha avuto la ‘propria’ banca centrale (la BCE) ostile e ostaggio e strumento della politica che voleva colpire la Grecia?

La seconda omissione è nel non trarre le conseguenze logiche e metodologiche dalle affermazioni fatte.

A pagina 202 si legge: “La crisi dell’euro … omissis … è stata innescata … omissis … dall’annuncio della cancelliera tedesca Angela Merkell e del presidente francese Nicolas Sarkozy che … omissis … i creditori privati avrebbero subito delle perdite. Si tratta del cosiddetto bail-in, una decisione che ha creato turbolenza dei mercati, l’aumento dello spread e l’innesco della crisi dei debiti sovrani”.

E quindi se la crisi dei debiti sovrani è stata innescata da Germania e Francia, che hanno deciso di non completare il percorso di rafforzamento della moneta unica condividendo il debito pubblico come la dottrina impone, allora non si tratta di una crisi economica legata alla reale insostenibilità del debito ma di una crisi politica. Si può risolvere una crisi politica con l’economia? Oggi la situazione dei paesi del Sud Europa, Francia compresa, è molto più grave di quella che portò alla firma del Fiscal Compact.

Il nodo politico europeo è tutto qui e continuare a non risolverlo porterà alla dissoluzione dell’Euro e dell’Europa. Non condividere il rischio del debito significa fermare il processo di unificazione europea. Mi pare semplice da capire.

La controprova è che gli USA, con il supporto della FED, sono rapidamente usciti dalla crisi dei sub prime mentre noi stiamo distruggendo l’Europa. Certamente l’estensione del Q.E. al piccolo, in relazione alla dimensione europea, debito della Grecia, insieme a misure ragionevoli di austerità, nel senso inteso da Berlinguer, avrebbe già da tempo risolto il tema greco e eliminato alle origini questo psicodramma europeo. La domanda sulla natura della crisi non è eludibile.

La terza omissione grave è sul caso Italia.

Nel paragrafo dedicato all’Italia nel periodo 2011 – 2012 si cerca di dimostrare che sarebbe stato meglio invertire la composizione della manovra tra tagli alle spese e tasse. La manovra era fatta per 55% di aumento delle tasse. È pur vero che alcune di queste (tasse sullo stazionamento di barche da diporto) oltre ad aver prodotto entrate peri a un decimo delle attese ha anche distrutto un intero settore economico ma la cifra della drammaticità percepita dalle persone è stato proprio sul taglio della spesa pensionistica fatta anche con errori madornali (esodati) e che hanno gettato il Paese nella paura del futuro. Di là dal merito della riforma è stata la percezione diffusa di un prossimo default che costringeva, al grido di ‘lo chiede l’Europa’, a tagli così repentini di un delicato settore, quello pensionistico, il cui presupposto è il patto fiduciario di almeno 65 anni (45 di accumulo e 20 di fruizione) tra il cittadino e lo Stato. La violazione subitanea di questo patto, senza aver dato il tempo ai cittadini di adeguarsi, ha gettato nel panico l’intera economia italiana.

Il mondo del lavoro soffre di tre cambiamenti strutturali: la globalizzazione, la informatizzazione e, nel prossimo futuro, la robotica. L’età pensionabile non incide sulla quantità di ore di lavoro necessarie ma sulla distribuzione di queste ore all’interno delle classi di età della popolazione. È vero che le persone vivono di più, ma i cambiamenti epocali che sta subendo la nostra società non possono essere affrontati agendo su una sola variabile ma richiedono una visione più complessiva di come sarà la società del futuro. Una società che ha intere generazioni che hanno lavorato, e lavorano, per 47 anni e per 40 ore settimanali, e quindi potranno beneficiare di pensione, e che ha intere generazioni che hanno, e avranno, sempre lavori precari, non fanno figli e lavorano saltuariamente, e quindi non avranno pensioni, potrà prosperare? O abbiamo creato il presupposto di una bomba sociale la cui miccia è già innescata?

Quello che si disse all’epoca era che non potevamo permetterci di spendere più della Germania in pensioni. Si disse che gli operai tedeschi non potevano tollerare di prendere pensioni più basse degli operai italiani. Ma era vero? Nel 2011 l’Italia aveva un costo delle pensioni pagate per abitante più elevato della Germania di circa il 6% e una incidenza del costo delle pensioni rispetto al PIL superiore di ben tre punti. Differenze più che annullate nel corso di soli 6 anni … anzi.

Però ci si è dimenticati di dire che mentre un operaio italiano che prendeva una pensione lorda di circa 1.600 euro al mese ci pagava sopra circa 600 euro di tasse il suo collega tedesco, a parità di pensione lorda, ne pagava circa 60. Rettificando quindi il dato, con le imposte pagate dai pensionati, la situazione cambia significativamente eliminando così una delle motivazioni forti che avevano generato quella riforma. Il costo complessivo per lo Stato delle pensioni era, ed è ancora di più oggi, in realtà molto più basso di quello della Germania sia rispetto al costo medio per abitante (4.273 in Germania contro 3.165 in Italia) sia rispetto al PIL (16% in Germania 12% in Italia).

Ora di tutto ciò e della riforma Fornero, nelle scarne pagine dedicate all’Italia, non c’è traccia! Sono basito! Omissione che getta una ombra malevola su tutte le questioni poste nel libro, le cui argomentazioni appaiono sempre più proditorie e fatte, cercando solo i dati utili a supportare le proprie teorie, per amor di tesi.

Se le politiche applicate alla Grecia, e che i tedeschi vogliono applicare a Spagna, Francia e Italia, fossero state applicate in Germania altro che rapporto Debito / PIL al 60%! Ci sarebbe stata una recessione talmente forte, almeno come quella avuta in Grecia, che avrebbe fatto resuscitare Hitler e tutti i gerarchi nazisti.

Quali sono quindi le cause di divergenza?

Certamente occorre prendere atto che l’Unione Europea, intesa come unica entità politica, non esiste e che invece esiste una sommatoria di interessi nazionali ove prevalgono quelli che hanno maggiore potenza e prepotenza. E quindi ogni stato ha il welfare che può permettersi e le pensioni che può pagare. Per carità va benissimo, basta dirlo con chiarezza e una volta detto prenderne atto e chiudere la tarantella dell’Europa Unita.

Bisogna però chiedersi se questa strada porti alla dissoluzione o al rafforzamento dell’Europa e della fratellanza, o almeno della tolleranza reciproca, tra i diversi popoli. La verità dietro gli andamenti europei è che le politiche portate innanzi sino ad ora aumentano le divergenze economiche e sociali tra i vari paesi europei e la storia ci insegna che questo, se non si pongono rimedi, genera disgregazione.

Nel libro si pone a confronto l’effetto sul risanamento dei conti pubblici dei piani basati sull’aumento di imposte rispetto a quelli basati sulla riduzione delle spese. I dati ci dicono che entrambi gli approcci in qualche caso hanno funzionato ma, aggiungo io, solo con un pesante intervento collaterale delle Banche Centrali.

Ma i disavanzi e i debiti pubblici sono un effetto o una causa delle divergenze? Da quello che sembra di capire dal modo di vedere degli autori del libro, e dei liberisti, pare che sia una causa e che messi in ordine i conti vada tutto a posto. Io credi invece che questo inseguimento del risanamento con la riduzione della spesa porti ad un circolo vizioso che non risana nulla ma che peggiora le cose.

Quindi come prima cosa occorre riconoscere le cause vere delle divergenze strutturali tra le economie del Nord e quelle dei paesi del Mediterraneo o del Sud Europa e che, numeri alla mano, non può essere nel fatto che i paesi del Sud Europa siano spendaccioni per pensioni e spesa sociale.

Queste sono tre.

La prima: la centralità geopolitica

Una delle cose che volle Kohl al momento della unificazione delle due Germanie fu l’allargamento ad Est dell’Europa. Questo fece divenire la Germania, già centro fisico del Nord Europa, anche centro politico di influenze e quindi dei commerci. Per capire meglio il concetto immaginiamo una linea metropolitana in una qualsiasi città. Le fermate più affollate sono quelle centrali. Se si aggiungiamo fermate a uno dei capolinea si sviluppano nuove aree cittadine e si sposta e allarga anche il centro della città. Nel capolinea opposto, dove non si investe, la periferia diviene sempre più povera e marginale. Essere il centro vuol dire avere vantaggi enormi in termini di opportunità. Più aumentano le periferie e maggiore diventano i traffici anche al centro. In centro ci sono negozi più ricchi e più clienti. Lo stesso vale per le nazioni. L’Europa ante unificazione poneva la Germania ovest ai confini europei l’allargamento ad Est l’ha portata al centro dell’Europa del Nord. Per contro l’allargamento ad Est ha reso l’Europa del Mediterraneo sempre più periferica.  Come per una linea metropolitana. Aggiungere fermate solo a un capolinea fa espandere la città solo in una direzione rendendo quella opposta meno appetibile. Tra l’altro l’allargamento ad Est fu voluto dalla Germania che di fatto è diventato il padrino politico di quell’area che domina e quindi la sua posizione in Europa aumenta.

La seconda: la concentrazione infrastrutturale

Nell’area che va da Anversa fino ad Amburgo c’è il più grande concentrato logistico (strade, ferrovie, aeroporti e, soprattutto, porti) del mondo. L’80% delle merci che arriva in Europa transita da lì. Spesso i liberisti dicono che occorre che ci sia prima lo sviluppo e che poi si possono fare le infrastrutture altrimenti si genera una spesa improduttiva. Il che sarebbe come dire che Isabella di Castiglia avrebbe dovuto dire a Colombo: “prima mi scopri l’America e poi ti dò le caravelle.” Oppure come se gli antichi romani avessero preteso che prima di costruire le consolari nascessero i vari paesi che hanno nel nome un ordinale (i.e. Settimo Torinese, Quinto Stampi o Quarto Miglio) e che segnavano, appunto, la distanza del centro città della stazione di posta intorno a cui si svilupparono i paesi. Per fortuna, dei tedeschi, Kohl non li ascoltò e per unificare le due Germanie come prima cosa varò, a debito, un colossale piano di infrastrutture per dare le stesse dotazioni sia all’est sia all’ovest del Paese e quindi le stesse opportunità.  Questo rafforzò la centralità fisica e l’influenza politica della Germania nell’Europa allargata verso Est.

La terza: la concentrazione delle istituzioni politiche.

Nello stesso luogo ove c’è la maggiore concentrazione di infrastrutture logistiche e dove c’è la maggiore centralità politica c’è la totalità di istituzioni europee. Queste oltre ad essere influenzate dalla cultura e dalla necessità delle aree che le ospita generano una enormità di PIL. Basti pensare che la sola agenzia del farmaco, che da Londra invece che a Milano fu trasferita ad Amsterdam, vale circa un miliardo di euro di PIL anno.

Ognuno di noi può fare mentalmente i confronti sui tre temi posti e chiedersi se a botte di austerità il Sud può riemergere o sprofondare sempre più. Ognuno di noi può chiedersi se ragionevolmente le ricette di Giavazzi, Alesina e Favero possono salvare l’Europa e rendere i paesi del Mediterraneo ricchi come la Germania o, per lo meno, ridurre le distanze.

Conclusioni

Se l’analisi sulle reali cause della crisi dei paesi del Sud è corretta le soluzioni sono conseguenti.

Occorre riscoprire la centralità del Mediterraneo, e dotarlo delle infrastrutture utili per lo sviluppo dei commerci, dirottare una parte consistente dei flussi commerciali che arrivano nel Nord Europa verso Suez e i porti del Mediterraneo. Mentre ci siamo forse è il caso di trasferire anche qualche istituzione europea o per lo mendo rendere le sedi itineranti. A risanare i conti Greci non farebbe comodo avere ad Atene la sede del Parlamento Europeo o della Commissione o della Banca Centrale? Non si può pretendere che la ricchezza prodotta dalle istituzioni europee, pagate da tutti ricada solo sui paesi del Nord che le ospitano e a non avere nessun trasferimento della ricchezza prodotta.

Come direbbe Henry Pirenne, lo storico belga, a proposito delle cause dell’inizio del medioevo ‘Il Mediterraneo si ridusse ad un lago stagnante’ e in un lago stagnante non cresce nulla e nulla può svilupparsi.

Dotare l’Europa del Sud di un secondo centro logistico per il commercio e decentrare una parte della politica trasferendo alcune agenzie e istituzioni europee, dovrebbero essere i presupposti di una nuova visione dell’Europa. Fattibile? Certo bisognerebbe avere polso con la Germana in primis, visto che Angela Merkel ha bloccato ogni tentativo del governo Tsipras di fare un accorto con la Cina per lo sviluppo del Porto del Pireo e di investimento diretto dei cinesi nelle infrastrutture greche.

Insomma bisognerebbe produrre qualcosa di visione maggiore del Piano per il Sud prodotto da Provenzano.

Ho invece il serio timore che prevarrà la visione del libro, dominante tra le cancellerie europee del Nord, anche post coronavirus, distruggendo quel che resta del concetto di Europa e mandandoci in miseria.

Ma anche i corona-bond e le risorse del MES per finanziare i disastri economici del coronavirus, se saranno spesi senza alcuna visione complessiva e non per riequilibrare le tre condizioni strutturali elencante prima, ci riporteranno rapidamente alla situazione di partenza.

Quello che sempre manca è l’idea che per pagare i debiti occorre lavorare di più e che per lavorare di più occorre un piano che parta da una nuova centralità del Mediterranei nei commerci internazionali.

Detto tutto ciò il libro e le tesi di Giavazzi, Alesina e Favero sono pericolose perché non frutto di ragione e di ricerca della verità o di un contributo a risolvere i problemi ma perché frutto di una impostazione ideologica vissuta con la rigidità di una fede che sostengono con il piglio di un clero medioevale.

Nota

Fonti: Eurostat, ‘Adulti nella stanza’ oltre a ‘Austerità, quando funziona e quando no’.

Per chi volesse vedere i dati che sono citati nell’articolo al link http://pietrodesarlo.altervista.org/fonte-dei-dati-eurostat/ ci sono le relative tabelle

Pietro de Sarlo

Chi è al link http://pietrodesarlo.altervista.org/chi-sono/