L’ingegnere che molla tutto per dedicarsi all’agricoltura

Giuseppe ha deciso di raccontarci la sua scelta e la sua idea sul “ritorno alla terra”, di cui oggi si parla, tra retorica e opportunità
Conosco Giuseppe Taneburgo dai tempi dell’università. Eravamo colleghi di corso nella Facoltà di Ingegneria di Bari. Di lui, proveniente da Sammichele di Bari, mi ha sempre colpito la rara dote di placido autocontrollo. Non potevo immaginare di trovarlo, anni dopo, a gestire con sapienza e dedizione dei terreni di famiglia, incastonati tra gli agri di Turi e Putignano, proprio di fronte alla sagoma del sito archeologico di Monte Sannace, silenziosa testimonianza della Peucezia preromana. Forse (e qui corro volentieri il rischio di espormi a una potenziale smentita), quella sua serafica impassibilità conteneva in nuce l’annuncio della distanza dal tipo del “cittadino”, che invece nelle scadenze festive assume i tratti degli insetti, consumato d’ansia e frenesia consumistica nell’alveare dei nostri centri commerciali.
La “lentezza” dei cicli della natura e la sapienza di saperli accarezzare con l’attesa. È quello che abbiamo perso. Giuseppe mi ha fatto tornare alla memoria le pagine belle di “Un’idea di felicità”, scritto da Luis Sepulveda e Carlo Petrini. “Stabilire il nostro specifico ritmo di vita. Questo significa battersi per non soccombere al mito della vertiginosa velocità che, oggi, ci viene proposta come sinonimo di rapida soddisfazione. L’idea è che se ci affrettiamo arriveremo prima: anche alla soddisfazione, anche al piacere”.
Probabilmente, è stato solo un caso, il frutto delle storie della sua famiglia, a portare Giuseppe a scegliere di essere un coltivatore, di far dipendere il proprio reddito dall’indulgenza degli elementi, come prima accadeva a gran parte dei nostri antenati. L’uomo, come il cavallo del poeta russo Vladimir Majakovskij, evocato da Petrini, dovrebbe solo fermarsi a contemplare le cose fondamentali: “Fermati, come il cavallo che percepisce l’abisso”.
Giuseppe ha deciso di raccontarci la sua scelta e la sua idea sul “ritorno alla terra”, di cui oggi si parla, tra retorica e opportunità.
Ci racconti la tua scelta di lasciare gli studi di ingegneria per dedicarsi al lavoro nei campi?
Nel 2015, dopo aver preso atto che ormai da tempo studiavo ingegneria edile con sempre meno entusiasmo, nonostante mi mancassero 4 esami alla laurea, ho deciso di seguire la mia passione: l’agricoltura. La mia famiglia possiede un po’ di terreni, e da sempre ho aiutato mia madre nella loro conduzione, soprattutto dei ciliegeti. Dal 1° gennaio 2016 mi sono iscritto all’Inps come coltivatore diretto e ho preso la completa gestione dell’azienda dove si coltivano seminativi, ciliegi e ulivi. L’esordio è stato un disastro: una grandinata distrugge quasi completamente il raccolto di un ciliegeto, dalla mietitura del grano, varietà convenzionali, quelle vendute a 25 € al quintale, ho recuperato le spese di semina e trebbiatura; altrettanto dalle olive, le piante erano un po’ trascurate e quindi la produzione ne ha risentito.
Occorreva un cambio di rotta: non concentrare l’impegno solo sul ciliegio, diversificare la produzione e puntare sulla qualità. Ho iniziato a coltivare grani della tradizione, a me il termine antico non piace molto: prima il grano duro “Sen. Cappelli” e da quest’anno anche il grano tenero “Bianchetta”, grani che coltivavano i nostri nonni, ma poi abbandonati a causa della scarsa resa. Coltivo con metodi sostenibili: faccio la rotazione con foraggio e poi queste varietà, molto alte, si “autodiserbano”, le infestanti seccano per assenza di luce; inoltre concimo con letame proveniente da piccole aziende zootecniche locali. Trattandosi di piccole quantità, gestisco interamente la filiera, dalla produzione alla vendita, avendo un mulino di riferimento in agro di Martina Franca. Nel tempo ho creato una rete di conoscenti/clienti che apprezzano i miei prodotti a km 0. Ho notato la crescente richiesta di prodotti locali: per le mandorle, ho preso in comodato un vecchio mandorleto che piano piano sto rimettendo in produzione. C’è la riscoperta dei fioroni e fichi, piante una volta molto presenti in Puglia, ma purtroppo ora coltivate solo in pochi areali. Infine, dallo scorso anno mi sto cimentando con la coltivazione di legumi, fave e ceci di varietà locali, cottoi, ma che necessitano di lavorazioni esclusivamente manuali.
Si parla molto di “ritorno alla terra”, sono state intraprese anche iniziative di incentivazione. Consiglieresti questo tipo di scelta?
Su questo argomento, purtroppo devo prendere atto che negli ultimi anni sulla stampa e in televisione, con una buona dose di retorica, è passato il messaggio di una nuova “Arcadia”: si presentavano tanti casi di giovani donne e uomini che hanno scelto di intraprendere il lavoro di agricoltore. Con la mia esperienza mi sento di dire che non è è tutto rose e fiori… con i cambiamenti climatici, gli eventi estremi sono molto più frequenti; e poi i patogeni alieni, batteri e insetti provenienti dall’estero, la Xylella è solo uno dei flagelli… Io consiglio questo lavoro, ma ci deve essere una forte passione, non può essere un ripiego. Solo la passione permette di rimetterti al lavoro dopo una grandinata che compromette un anno di lavoro, o di fare orari di lavoro massacranti. Sì bisogna dirlo, ci sono periodi abbastanza tranquilli, ma altri in cui non esistono orari o festività.
C’è infine da aggiungere che per iniziare a fare l’agricoltore servono molte risorse. La terra e gli attrezzi, costano. Quindi se non hai alle spalle una famiglia che possa permetterti di avviare l’attività, l’unica via è quella della richiesta di cofinanziamento pubblico. I Piani di Sviluppo Rurale (P.S.R.) hanno previsto dei fondi, ma secondo me insufficienti. L’agricoltura è un settore strategico, non è possibile che solo 1 giovane su 4 che abbia presentato il progetto possa vedere esaudita la propria richiesta. La politica non può fare solo proclami, occorre dimostrare con i fatti che si vuole dare una possibilità ai giovani: non si può giocare con il loro futuro.
Essendo ormai esperto di vita nei campi, cosa ritieni che si potrebbe fare, in termini di iniziative, incentivazioni, per favorire il ritorno del lavoro di contadino?
È un po’ brutale dirlo, ma senza gratificazioni economiche non si può andare lontano. Ritengo che in un mondo globalizzato l’unica via per l’agricoltura italiana sia quella della qualità. Per i cereali, per esempio, visto che un numero sempre crescente di consumatori va alla ricerca di prodotti con materia prima italiana, occorrerebbe creare degli impianti che permettano un migliore stoccaggio del prodotto, in cui il grano di qualità possa essere distinguibile, cofinanziare la creazione di filiere. Così, anche per l’olio, è fondamentale la creazione di filiere, il consumatore deve essere certo che ci sia una la reale differenza qualitativa tra un extravergine venduto 7/8 € da uno a 3 €.
Infine, permettetemi uno sfogo. Chi la vede da fuori non immagina, ma in agricoltura ci sono adempimenti burocratici a tratti asfissianti, che per essere redatti necessitano di consulenti e di tempo per recarsi a questo e a quell’ufficio. Se poi sorge qualche problema con l’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura (Agea), è la fine, un muro di gomma con cui non si riesce a dialogare. Più concretezza aiuterebbe il settore.