La Basilicata ingannata. Ci sono cose che non hanno un prezzo, ma dignità

13 dicembre 2019 | 13:19
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La Basilicata ingannata. Ci sono cose che non hanno un prezzo, ma dignità

L’acqua, il vento e il sole sono diventati mezzi di produzione nelle mani di un’industria predatoria. Siamo passati dagli abbracci alle strette di mano, mentre tutto si svuota

Per dirla con Kant – usando le sue parole – ci sono cose che non hanno un prezzo, ma dignità. E la dignità, come ho già scritto, è un fattore di sviluppo non solo umano. È un fattore di sviluppo sociale, economico, culturale, morale. Sviluppo inteso come miglioramento delle condizioni, come innesco di un senso – significato e direzione – nuovo che guarda al presente a al futuro. La dignità è una dimensione intima della felicità.

Eppure, più spesso siamo stati – e siamo – ossessionati da questioni materiali, denaro, interessi, potere, e da tutto ciò che si può vendere o comprare. Incapaci di comprendere ciò che ha veramente valore: solidarietà, fratellanza, cultura, giustizia sociale, senso di comunità. Dunque prezzo e dignità sono due dimensioni che ci aiutano a leggere la storia recente della Basilicata da un punto di vista del tempo e dell’uso che del tempo abbiamo fatto. La conclusione sarà che abbiamo sprecato il tempo. E le responsabilità sono sia individuali sia collettive. La società lucana non ha mai riflettuto su se stessa, diventando così una “massa ingannata”.

La dignità nella povertà

Siamo una delle regioni più povere. Tuttavia esiste una distanza notevole tra la povertà reale e la povertà percepita. Molte persone, seppure considerate statisticamente povere non si percepiscono tali. Soprattutto i cittadini più anziani che vivono nei paesi – le periferie centrali della Basilicata – hanno un tenore di vita di frugale abbondanza, legato alle loro antiche abitudini. “Basta poco per avere il poco che basta.” Molti di loro hanno tanta esperienza e poca istruzione. Impermeabili al bombardamento consumistico e alle mode, anche a quelle alimentari. Il loro cruccio principale sono la salute, i figli, i nipoti. Il resto appartiene ad un mondo con cui non hanno mai voluto contaminarsi fino in fondo. L’attaccamento al denaro, di molti di loro, è la reazione alla paura di ammalarsi, di avere bisogno di cure e di assistenza. “Se finisco a letto, chi mi assiste?”. E poi le visite mediche specialistiche, le medicine, costano. Riescono ancora a reggere l’equilibrio tra la paura della malattia e le paure del futuro dei loro figli.

Ma c’è un’altra ragione per cui la povertà percepita è distante dalla povertà reale. Loro sono poveri, per l’Istat, ma non lo sanno. Perché per loro essere poveri è non avere da mangiare né una casa dove stare. Certamente non sono ricchi né si percepiscono tali. Tuttavia c’è un aspetto che riguarda il senso della dignità. Non è solo una questione di percezione. Si tratta anche di un atteggiamento pubblico di tutela del decoro, della rispettabilità. Apparire meno poveri o addirittura niente affatto poveri, è importante per la dignità. E percepirsi e farsi percepire come persone degne, aiuta a vivere in una dimensione di intima felicità. Non è gente che “piange e fotte”, è semplicemente gente che non piange.

Il senso di comunità e di solidarietà

In quei paesi esisteva fino agli anni 70 – e in parte sopravvive mal ridotta – una cultura del vicinato, che non era soltanto aiutare il prossimo nei momenti di piccole difficoltà. Quell’essere prossimo all’altro, si era trasformato in codice morale praticato nella consuetudine. “Ho fatto la focaccia e pare brutto che non ne porti un pezzo al vicino per assaggiarla”. Quel “pare brutto” non va inteso nel significato di “apparire”, non riguarda il rispetto doveroso di una formalità, ma è un imperativo morale. Tenere i bambini della vicina di casa per tutta la giornata era dono, condivisione, reciprocità, solidarietà, che davano un senso profondamente civile alla vita di comunità. Erano le basi di una comunità che dentro se stessa non sentiva alcuna solitudine. Seppure esclusa dal resto del mondo, ai margini del “progresso”, si percepiva resistente e resiliente.

È un mondo che chi ha voluto inventarsi il familismo amorale a Montegrano, ha fatto finta di non vedere.

Certo, c’è anche altro. L’egoismo della sopravvivenza, le sofferenze per le condizioni di isolamento, l’incapacità di reagire alle forze esterne, la sottomissione al Potere e il malinteso senso del rispetto. L’incapacità di percepire i diritti, di riconoscere fino in fondo le proprie condizioni di disagio. Ma questo non serve al ragionamento di oggi.

La politica, lo svuotamento e il tempo perso

I nostri paesi – periferie centrali della regione – si sono svuotati di persone, soprattutto giovani. E mentre si svuotavano di persone perdevano la loro ricchezza di valori. Quei paesi si sono svuotati di valori. Uno svuotamento che ha quasi distrutto il senso della dignità.

Ed è stata la politica ad assumersi la responsabilità di questo svuotamento. E mentre, negli anni successivi, si aprono le stagioni dei restauri, dei recuperi urbanistici, della valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, architettonico, dei borghi e così via, si perde di vista l’essenza dei valori veri. Si recuperano e si valorizzano le cose, non le persone. I muri, non i valori, il denaro non la dignità. E mentre negli anni successivi si apre la stagione dell’industrializzazione esogena – fallimentare – devastatrice, dalla liqui-chimica al petrolio, si perdono di vista le ricchezze endogene: dal patrimonio naturalistico al patrimonio antropologico, culturale. L’acqua, il vento e il sole finiscono per diventare mezzi di produzione nelle mani di un’industria predatoria. Insomma il mondo contadino non transita nella modernità, non diventa radici per il futuro, ma viene travolto da un cambiamento che lo esclude, viene praticamente distrutto, sacrificato a un “progresso” distopico. C’è stata un’evacuazione pianificata dei valori dai loro luoghi naturali.

Lo spopolamento di questi anni è anche spopolamento di ricchezze e di valori. E così la politica e la falsa modernità, ci hanno portati a vedere tutte le cose con un prezzo, senza dignità. E dunque anche il tempo e il suo scorrere lo abbiamo percepito come kronos: misurato dalle lancette, quantificabile, che passa e richiama l’attesa. Mentre l’egemonia del capitale, il dominio della corruzione, degli interessi egoistici, della cultura del denaro e della falsa modernità si allargavano inesorabilmente. Proprio quando la dignità e i valori si sarebbero dovuti innescare nel kairos: tempo in quanto successione infinita di momenti e circostanze potenzialmente rivoluzionarie, tempo come occasione, potenza, cambiamento. Ed è questo il tempo che abbiamo perso.

E allora siamo passati dagli abbracci alle strette di mano. Abbiamo imparato a stringere le mani per fare patti e disimparato ad abbracciarci per fare comunanza.

Tuttavia, per dirla con Rocco Scotellaro “Svegliati bella mia che giorno è fatto/sono volati gli uccelli dai nidi”.  E chissà se l’alba è nuova, è nuova.