L'Intervista |
Cronaca
/

Federalismo differenziato, lo scontro evidenzia quanto irrisolta rimanga la questione meridionale

30 settembre 2019 | 17:16
Share0
Federalismo differenziato, lo scontro evidenzia quanto irrisolta rimanga la questione meridionale

Ne abbiamo parlato con il professor Carmine Guerriero autore di uno studio sul divario tra le regioni del Sud e quelle del Centro-Nord

Il lavoro pubblicato a fine 2018 da Guilherme de Oliveira e Carmine Guerriero sulla rivista internazionale International Review of Law and Economics prova a far luce su un tema molto discusso e interessante: il divario tra le regioni del Sud e quelle del Centro-Nord è legato o meno al processo unitario? Che ruolo hanno avuto le politiche dei primi governi post-unitari, in particolare del primo cinquantennio 1861-1911? Al ricercatore Carmine Guerriero, dell’Università di Bologna, abbiamo rivolto alcune domande.

Professor Guerriero, il titolo del vostro lavoro è: “Extractive states: The case of the Italian unification”. Cosa intendete per stati estrattivi?

Con l’aggettivo “estrattive” qualifichiamo le politiche statali imposte da una minoranza dominante sul resto della popolazione e destinate a distorcere le scelte dei gruppi dominati tanto più quanto minore è la loro rilevanza politica per la coalizione al potere. Tale dinamica istituzionale è stata tipica degli stati nazionali formatosi nell’Ottocento in seguito a guerre civili, come, ad esempio, gli Stati Uniti d’America e, per l’appunto, il Regno d’Italia, ed è ancora rilevante per comprendere le decisioni di organizzazioni economiche sopranazionali quali l’Unione Europea. Quindi, capire l’origine e l’impatto delle politiche e delle istituzioni estrattive è non solo questione storicamente rilevante, ma intrinsecamente attuale.

Qual era la situazione nel 1861? Esisteva un divario? Che ruolo hanno avuto le politiche dei governi nazionali nel primo cinquantennio, da voi esaminate?

La nostra storia nazionale affonda le sue radici nell’annessione da parte del Regno di Sardegna, l’unico stato preunitario dotato di un emergente settore manifatturiero e di un moderno esercito, di sei regni—quello Lombardo-Veneto, quello delle Due Sicilie, i ducati di Modena e Parma, il Granducato di Toscana e lo Stato Papale—accomunati da una economia onninamente agraria e da una simile concentrazione della proprietà terriera, penuria di capitale umano e reale, scarsità di infrastrutture e incapacità di finanziare la spesa pubblica attraverso la tassazione. Fu proprio il connubio tra maggiore capacità militare e, quindi, “estrattiva” del Regno di Sardegna e diversa rilevanza per gli equilibri politici internazionali delle tredici regioni annesse a produrre, tra il 1861 e il 1911, quelle politiche statali, ma applicate in maniera differenziata a livello regionale, che costituiscono una delle principali determinanti degli attuali divari secondo i nostri risultati empirici. Dominati dall’élite settentrionale, che produsse l’85 per cento dei presidenti del consiglio, tutti i prefetti e il 60 per cento dei vertici amministrativi, i primi governi postunitari favorirono, infatti, le regioni più vicine ai confini Francesi e Austriaci, e quindi militarmente più importanti, e minarono il civismo, capitale umano e crescita di quelle più distanti.

La riforma protezionista del 1887, per esempio, non salvaguardò l’arboricoltura meridionale schiacciata dal declino dei prezzi internazionali degli anni Ottanta, ma protesse le industrie tessili e siderurgiche settentrionali sopravvissute al periodo liberista grazie alle commesse statali. Una logica simile guidò le bonifiche agrarie, l’assegnazione del monopolio del conio alla piemontese Banca Nazionale, l’affidamento dei monopoli nella costruzione e operazione di navi a vapore alle genovesi Rubattino e Accossato-Peirano-Danovaro e, soprattutto, la spesa pubblica nella rete ferroviaria, che rappresentò il 53 per cento del totale tra il 1861 e il 1911. A peggiorare le cose, tali investimenti furono in buona parte finanziato da imposte sulla proprietà fondiaria altamente squilibrate. La riforma del 1864 fissò, infatti, un “contingente” di 125 milioni di lire del 1861 da raccogliere per il 10 per cento dall’ex Stato pontificio, per il 40 per cento dall’ex Regno delle Due Sicilie, per il 21 per cento dall’ex Regno di Sardegna e per il 29 per cento dal resto del Regno d’Italia. Date le differenze tra i catasti regionali e la conseguente impossibilità di stimare la redditività agraria, l’asimmetria del prelievo fiscale, insieme all’inefficienza del sistema bancario, ebbe conseguenze letali sugli investimenti privati, nonostante la perequazione avviata nel 1886. Mentre, infatti, un fiorente settore manifatturiero si affermò nel Settentrione, il connubio di limitata spesa pubblica e alta tassazione compromise altrove l’agricoltura orientata all’esportazione, il settore industriale e la relazione stessa tra cittadini e stato, come suggeriscono le 150 mila vittime del brigantaggio e l’emigrazione di massa di inizio Novecento.

Questi fatti storici sono corroborati dalle nostre stime statistiche. I regnanti preunitari diminuivano la tassazione sulla proprietà fondiaria pro capite in lire del 1861 all’aumentare della produttività agricola e, quindi, all’aumentare del potere della popolazione agraria perché impauriti da rivolte di massa. Dopo il 1861, la stessa misura di prelievo fiscale è unicamente determinata dalla distanza tra ciascuna regione e il maggior nemico dei Savoia, che è una misura inversa della rilevanza militare. Inoltre, il grado di distorsione della tassazione sulla proprietà fondiaria, misurato dalla differenza tra gettito pro capite postunitario e quello previsto attraverso le stime preunitarie, e il peso delle altre politiche estrattive, sintetizzato da bassa rilevanza militare e limitati costi di esazione, sono legati a un maggiore deterioramento del civismo, un più lento calo dell’analfabetismo e una minore crescita nelle regioni annesse. Tali relazioni sopravvivono alla considerazione dei fattori preunitari proposti dalla letteratura precedente come determinanti dei presenti divari, i.e., inclusività del processo politico, frammentazione della proprietà terriera, prezzo del carbone, e sviluppo delle strade ferrate.

Va infine escluso che le distorsioni postunitarie possano essere il prezzo da pagare per partecipare alla seconda rivoluzione industriale. Da un lato, le politiche estrattive non hanno modificato il valore aggiunto del settore manifatturiero. Dall’altro lato, mentre l’investimento in strade ferrate preunitario fu guidato dal bisogno di trasportare grano, quello postunitario fu guidato solo dalla rilevanza militare regionale e fallì nel creare il mercato interno necessario ad assorbire le produzioni agrarie penalizzate dal calo della domanda internazionale.

Cosa insegna il mezzo secolo di storia da voi indagato all’Italia di oggi?

Lo scontro sul federalismo differenziato, tra le primarie cause della fine del governo gialloverde, evidenzia quanto irrisolta rimanga la questione meridionale. Esattamente come la dinamica istituzionale che ha caratterizzato l’inizio della nostra storia unitaria, implementare oggi politiche economiche che favoriscono solo una parte del Paese può avere un impatto drammatico e duraturo sulle scelte del resto della nazione. Ci piacerebbe che almeno una volta non risuonasse come un vaticinio sinistro la nota massima cutoliana “la storia non ha mai insegnato niente a nessuno, altrimenti non ci troveremmo nei guai in cui ci troviamo.”