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Il suono dell’assenza, il saggio ipnotico sul dolore di Elena Gigante

7 giugno 2019 | 10:45
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Il suono dell’assenza, il saggio ipnotico sul dolore di Elena Gigante

Il viaggio che ci propone l’autrice inizia dal richiamo dell’enigma kafkiano del silenzio delle Sirene

Il viaggio che ci propone Elena Gigante inizia dal richiamo dell’enigma kafkiano del silenzio delle Sirene: il loro silenzio è arma più temibile del loro stesso canto. Non ci avevo mai pensato prima.

La vera impresa epica è il confronto con la desolazione del silenzio, degli inappagati desideri, dei rimpianti che risucchiano, come imbuti all’indietro, lo sguardo interiore. Il silenzio può essere una scelta mistica o un mero agguato della vita nel giardino delle nostre belle speranze di gioventù.

La pianta sfiorita del tarassaco è la sfida al cielo della creatura che cade, lo sguardo che lancia un progetto di prosecuzione, come un guanto in faccia agli dei, alle catene di entropia avvolte come spire strette sul petto di Prometeo. Una pianta poco nobile, comune, nasconde nel volume minuscolo di una sfera diafana la moltiplicazione delle energie potenziali, pronte a balzare, al primo soffio caoticamente creativo del vento, che ne sparge inconsapevolmente il seme fecondo sulla terra.

Un abbraccio di biologia e fenomenologia, il punto di partenza di Elena Gigante per il suo saggio, che definirei ipnotico, “Il suono dell’assenza”, edito da Moretti e Vitali.

Copertina libro

Un soffio fa saltare i piani al silenzio, irrompe col suono della vita in un alto sibilo, caricando di nuova, inattesa energia, ciò che pareva inesorabilmente secco. Costruire le premesse di nuove esplosioni, mentre si scivola nel declivio della contabilità delle esistenze: è forse questo l’atto più rivoluzionario dell’uomo e degli esseri viventi nella biosfera? È forse in questo la vera hybris? Il progetto di una evasione dal carcere duro del tempo? Il gioco della bimba che si finge morta, come il soffione, è l’esorcismo perfetto o pura blasfemia? Su queste ambiguità sono scivolato velocemente, interrogato intimamente, nella lettura del saggio di Elena Gigante.

Il soffio sul fiore del tarassaco è la forza scatenante che raccoglie tutto lo sforzo e riassume il successo della piccola vita di un fiore che muore.

Elena scriverebbe che ci consente di “maturare uno sguardo estetico, cogliere la bellezza dell’esistenza nella sua miseria costitutiva”. L’ingegneria sublime della cupola geodetica di quel fiore, pronta a esplodere sotto l’impulso di un soffio è lezione di architettura, fisica e filosofia, in un sol tempo.

Per comprendere questo marchingegno oscillante, tra Eros e Thanatos, occorre triangolare con il linguaggio criptico dell’Assenza. Il desiderio di un amato adorabile (ipse) svanisce nell’imprecisione della sua compiuta descrizione, affidata alle parole. La sua assenza è, insieme, desiderio e perdita. L’esperienza della perdita è un motore potentissimo con un lessico privilegiato di bellezza e disperazioni convulse.

Non a caso, Elena Gigante cita Manganelli che invita a scrivere intingendo la penna nel dolore. Il dolore dell’assenza è quindi “materiale operatorio plastico”. Con l’unghia scrivi sul tuo nulla: A capo”. Sempre il Poeta.

Ancora una volta, l’esperienza dell’assenza può diventare latrice di nuovo movimento o declivio verso il vuoto. Coltivatori della distanza, possiamo diventare, se sappiamo diventare manipolatori dello stesso dolore che mira ad abbracciarci fino all’asfissia.

I temi affrontati nel saggio paiono dettagliate tomografie delle nostre più attuali inquietudini, con cui bisogna avere il coraggio di confrontarsi, senza indugi.

Ecco che i poeti vengono definiti, coerentemente con quanto detto, “coltivatori di distanze”.

La poesia è il rocchetto del bambino che gioca a tendere il legame con le proprie emozioni, i ricordi, le assenze stesse: l’aquilone è uno spicchio di cielo che si fa manifestazione tangibile e distante, che apre un dialogo nella tensione di un filo. È un gioco di bambini che rubano distanza al cielo.

Fino a quando l’uomo riesce a capire, a contenere l’assenza, i confini sono gestiti, il vuoto resta lontano. In caso contrario, rischiamo di perdere anche la capacità stessa di amare. In fondo non è tutta la nostra esistenza una lunga camminata lungo uno sbalzo impervio sul vuoto?

La nascita è un’emergenza nell’oscurità dell’indifferenziato. Ma viene ricordato al lettore che siamo “creature bucate” in cui la vita fluisce, esposta alle esperienze della perdita, tra inspirazione ed espirazione, nel ritmico ripetersi dell’immissione del soffio, che potrebbe preludere all’isotropa esplosione del tarassaco: quella violenza iniziale che prelude alla vita, quel dolore che porta in seno il senso del primo pianto di un essere umano, quando viene alla luce; per poi diventare, esso stesso, passaggio e trasmissione del movimento, da una generazione alla successiva.

Ci ricorda Elena, che “trascorriamo tutta la nostra esistenza immersi nella sostanza invisibile dell’aria, continuiamo a respirarla con noncuranza, affaccendati in altro, a meno che non intervengano delle perturbazioni, variazioni di invisibilità che trasformano quella trasparenza abissale in immagini autoevidenti e pervasive”. Ci aiuta a vedere, per analogia, nell’aria la psiche e nel suo movimento l’energia psichica in un gioco fluttuante di gradienti di densità.

L’artista manipola il dolore dell’assenza per metterlo in relazione col mondo, proprio attraverso magistrali variazioni di densità. Spesso incontrollate in quanto inconsce irruzioni che trascendono la stessa individualità dell’artista. Viene citato Jung, non a caso: “il poeta e il malato di mente hanno in comune qualcosa che ogni essere umano porta in sé; vale a dire una fantasia instancabilmente creatrice, che si sforza continuamente di compensare le durezze della vita”. L’arte dà respiro voce alle statue pietrificate. La musica si fa soffio sulla metamorfosi perpetua della nostra vita.