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In politica va sempre più di moda il camouflage

10 settembre 2018 | 09:11
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In politica va sempre più di moda il camouflage

Da decenni, ormai, si assiste a un chiaro sovvertimento dell’ordine naturale del meccanismo del suffragio

In politica va sempre più di moda il camouflage. Da decenni, ormai, si assiste a un chiaro sovvertimento dell’ordine naturale del meccanismo del suffragio, di quel plausibile legame tra quadro dei bisogni di un gruppo sociale e gruppo politico candidato a rappresentarli nelle assemblee elettive. Recidere questo legame apre la via alla pratica perpetua e sistematica dell’inganno dei principi della democrazia rappresentativa, a varie forme e sistemi di distrazione permanente del consenso, principalmente a danno dei gruppi sociali più deboli.

In pratica, le elezioni tendono a diventare una gara di distrazione di massa di ampie fette di elettorato dal proprio naturale target politico. La fine dei grandi blocchi destra/sinistra, salutata da molti come una liberazione da schemi stantii, alla fine dei conti ha permesso di intorbidire le acque, di impacchettare partiti, club e movimenti atti a confondere gli elettori, usando facili parole chiave, come libertà (di? da?), onestà e giustizia (quale?, per chi? per cosa?), a seconda dei casi, in modo intrinsecamente ambiguo, per attrarre i consensi, per distrarre, per vincere le competizioni elettorali.

L’elettore, preso dalle proprie quotidiane occupazioni, difficilmente dedica ulteriore tempo alla necessaria verifica dell’operato dei politici sostenuti in cabina elettorale. Altre volte si lascia incasellare in approcci degni della peggiore tifoseria calcistica. Lo dimostra nettamente la difficoltà di intavolare dialoghi costruttivi sui social network, su cui uno sterile rimpallo di meriti/responsabilità dei beniamini del caso impedisce un utile confronto a chi indossi la lente del tifo, anche più perniciosa della vecchia ideologia, tanto vituperata. Essa offriva strumenti di lettura, oggi sostituiti troppo spesso da un blog e da colpi di googling.

Chiaramente, per chi osservi la politica, l’obiettivo principale di partiti a caccia di impossibili sostegni elettorali diventa prioritariamente quello di gettare sabbia negli occhi degli elettori in zona grigia (gli indecisi e i poco informati) per rendere inintelligibile il percorso del proprio voto e la relativa spendibilità politica, se non in un quadro di slogan propagandistici confezionato ad arte. Un partito, possibilmente nuovo di zecca come un marchio brand new, sguinzaglia nelle piazze leader, o presunti tali, che infiammano le folle parlando di bene comune, occupazione, Costituzione e giustizia sociale e poi, in Parlamento, agisce come un partito conservatore, adeguandosi in tutto e per tutto a una politica di stampo conservatore. Persino occupando gli scranni di quell’area politica, cosa che anche simbolicamente toglie molti dubbi. In Italia è accaduto spesso che un leader di una parte politica attuasse politiche palesemente contrarie agli interessi del proprio elettorato. Non solo a destra.

Eppure, si parla di forza politica proprio perché s’intende richiamare il concetto fisico del vettore, dotato di direzione, verso e punto di applicazione e, soprattutto, di modulo, ossia l’entità numerica di quella forza. Se due partiti rappresentano forze sociali in antitesi, il risultato della composizione dei due vettori, ossia delle due forze, sarà inevitabilmente nullo o quasi tale. Una delle due forze sociali, in termini di azione politica risultante, sarà destinata a soccombere. Se entrambi i partiti di un’alleanza hanno invece pescato nel torbido delle acque del dissenso, si rischia di perdere la diretta connessione tra forza sociale delegante e azione politica risultante. Ad esempio, il caso dell’alleanza tra Lega e Movimento Cinque Stelle ancora rende poco chiaro l’esito della composizione di queste forze, in termini sociali. Quale il punto di applicazione? Quale il modulo risultante dalla composizione di queste forze? Quale il verso? Lo riveleranno i prossimi mesi, senz’altro, nell’esplicazione dell’azione di governo, il cui Patto fondativo è proprio il tentativo di offrire risposte a quesiti di questo tipo.

In molti casi, i regimi populisti hanno fatto seguire all’atto della promessa di alcune operazioni politiche altre e ben diverse scelte nel periodo post elettorale, dando luogo a un vero camouflage, un camuffamento, una circonvenzione dell’elettore, mediante un atteggiamento deliberatamente insidioso. Promettendo libertà, sovranità, sicurezza, ma attuando repressione delle opposizioni e riduzione della sfera dei diritti, politici e sociali. I populisti, grazie all’ampio uso di slogan e formule di chiara comprensione, catturano elettori tra precari, pensionati, proletari, disoccupati e sottoccupati, per intrupparli nell’ennesima, confusa e scompaginata fusione di voti, pur sempre articolata intorno agli interessi dei ceti dominanti. Accadde col fascismo, quando reduci, piccola borghesia e parte dei contadini furono arruolati nella formazione del regime a trazione conservatrice, stabilmente fondato sul più solido patto tra imprenditori e proprietari terrieri. E succede quando il populismo semina demagogia aizzando il rancore sulle ferite di una popolazione colpita da una crisi pluriennale, alimentando la paura e la diffidenza nella popolazione, minata nelle sue certezze economiche.

La disgiunzione netta tra momento della enunciazione degli intenti e quella dell’attuazione delle politiche di governo può essere scongiurata solo attraverso un passaggio inevitabile: il riconoscimento dei diversi gruppi sociali e delle relative, attuali necessità. Il soddisfacimento di quelle esigenze di “inclusione” richiede spesa pubblica e finanziamenti entro un quadro di accorta programmazione statale, nel rispetto dei vincoli di bilancio. Queste iniziative devono appartenere a un’area politica che costituisca il luogo naturale dell’inclusione e dell’ampliamento della sfera dei diritti. Quest’area non può che essere collocata a sinistra, confliggendo apertamente con le politiche economiche liberiste e della mera contrazione di spesa pubblica e detassazione, invocate da altri gruppi sociali di carattere squisitamente conservatore. La successiva composizione di queste forze potenziali con altre forze eventualmente – e senza dubbio – disponibili nel quadro del nostro elettorato consente di ricostruire un quadro chiaro di bisogni e risposte, di fronte al moltiplicarsi di unmet needs a cui assistiamo tra le fasce sociali più deboli. Lasciate in balìa della peggiore propagansa populista, dalle venature xenofobe e nazionaliste. In questo quadro di risposte, può attuarsi un autoriconoscimento di queste forze. Solo l’alleanza tra gruppi sociali dalle esigenze compatibili può portare a un’azione di governo dotata di qualche significatività.

Fino ad allora, sarà grave la responsabilità politica di chi preferisca lasciare l’elettore deprivato di rappresentanza credibile e autorevole, costretto a scegliere tra la solitudine del non voto e la proposta del “meno peggio”.

Si può decidere di non credere più nella dicotomia destra/sinistra ma bisogna intendere bene che l’azione di governo, innegabilmente, finisce per favorire l’uno o l’altro dei blocchi sociali in cui la nostra popolazione risulta inevitabilmente articolata. Si deve ripristinare la trasparenza della rappresentanza. Alla base, occorre un pensiero che sottenda l’azione di governo, che punti all’inclusione nella sfera dei diritti di milioni di cittadini italiani oggi esclusi da un’ampia fascia di diritti. Si pensi al lavoro, alle cure, alla disomogenea disponibilità di servizi sul territorio.

Occorre un’alleanza trasversale tra i gruppi sociali in maggiore sofferenza, una relativa composizione dei bisogni in un quadro di azioni dai lineamenti identificabili sotto ogni profilo. Dalle idee fino alla fattibilità finanziaria. Con formule chiare e di agevole interpretazione da parte dell’elettorato.

Oggi sappiamo che i Governi di centro destra dagli anni Novanta in poi hanno accentuato i divari Nord/Sud, fino al drammatico epilogo del 2014, con divari di Pil pro capite in rapporti ridotti a valori simili a quelli del Secondo Dopoguerra: eppure, nel contempo, quegli stessi attori cercavano i consensi tra i ceti deboli (pensionati, disoccupati), promettendo milioni di posti di lavoro con spot martellanti e recuperando voti al Sud, tenendo in piedi due alleanze diverse nelle due grandi aree del paese (Nord: Lega/Forza Italia; sud: Alleanza Nazionale/Forza Italia). La risultante di quelle azioni di governo è ben nota nelle ricadute sull’economia del paese e del Sud, in primis. La retorica paternalistica è sempre stata un ottimo strumento per ammaliare l’elettore e portarlo in una casa non propria. Negli ultimi anni, la deriva dei governi del centro-sinistra, conseguente ad alcune scelte ritenute impopolari, ha determinato la rottura del patto di fiducia tra alcune importanti fette di elettorato e partito storicamente deputato a rappresentarli. Nel frattempo, si ha l’impressione netta che la sinistra non può più limitarsi a rappresentare alcune fasce sociali tutelate dimenticandosi in cantina la crescente maggioranza di esclusi. L’elettore si trova a scegliere tra due forme di conservazione. Un dato irritante per milioni di cittadini esclusi dalle roccaforti della tutela. Abbandonati in balia degli schieramenti populisti, per contumacia.

Il riconoscimento del camouflage politico è oggi accelerato dalla gran copia di informazioni di cui arriviamo a disporre. Ma il momento del riconoscimento resta tardivo rispetto alla possibilità di porvi rimedio. La rapidità di quel riconoscimento è il punto zero da cui ripartire.