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Il Sud è un serbatoio di crescita e sviluppo, ma a certe condizioni

18 novembre 2017 | 17:27
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Il Sud è un serbatoio di crescita e sviluppo, ma a certe condizioni

Intervista con Gianfranco Viesti, professore ordinario di Economia applicata nel Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Bari

Gianfranco Viesti è professore ordinario di Economia applicata nel Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Bari. È uno dei massimi esperti di economia del Mezzogiorno e, da anni, attraverso saggi e articoli di grande interesse ed efficacia, compie un lavoro meticoloso di smantellamento dei luoghi comuni sul Mezzogiorno, con particolare riferimento alle questioni Economia e Università. L’ho intervistato, giorni fa, per fare il punto su alcuni temi caldi che riguardano il Sud: tassi di crescita, autonomismi, università, proposte per il Sud.

Professor Viesti, secondo la Commissione Europea, la zona euro crescerà del 2.2% quest’anno e del 2.1% il prossimo anno. L’Italia è purtroppo al traino, con un dato dell’1.5% per quest’anno e dell’1.3% per quanto riguarda le previsioni per il 2018. Secondo lei questi dati potrebbero subire cambiamenti sensibili se si ponesse mano a interventi significativi nel Mezzogiorno? In caso affermativo, di che tipo e con quali priorità?

Il più basso tasso di crescita italiano rispetto a quello medio europeo non è una novità ed è una caratteristica di questo secolo. Dipende, probabilmente, da una minore capacità dell’Italia, rispetto alle altre economie europee, di integrarsi con successo nel mondo economico contemporaneo. Tutto lascia pensare che i due ambiti in cui l’Italia potrebbe recuperare in termini di tasso di crescita sono da un lato la filiera della Ricerca e dell’Innovazione e utilizzazione di capitale umano nelle imprese, per favorire i processi di crescita e rendere le imprese più competitive, sotto il profilo della realizzazione dei nuovi prodotti e servizi, grazie anche all’utilizzo di forza lavoro maggiormente qualificata; dall’altro il Mezzogiorno, che rappresenta un grande serbatoio di crescita in quanto ha una riserva di lavoro e di risorse materiali e immateriali inutilizzate e quindi potrebbe favorire, con il suo sviluppo, la crescita dell’intero paese. Realizzare questi due obiettivi richiede politiche di lungo periodo, in quanto non si tratta di risultati ottenibili da un giorno all’altro, con un investimento molto maggiore  nelle politiche industriali e nella Ricerca e Innovazione e nel rafforzamento strutturale delle imprese, una politica di investimenti pubblici e una politica industriale con forte connotazione territoriale per migliorare le condizioni dell’ambiente economico del Mezzogiorno e favorire anche lì la nascita e lo sviluppo delle imprese.

Divario di Pil pro capite fuga di giovani neolaureati, bassissimi investimenti in Ricerca & Sviluppo. Con il prof. Forges Davanzati, recentemente, proponevamo un intervento straordinario proprio per PMI innovative come sosteneva lei poco fa al Sud, coinvolgendo competenze e proprietà intellettuali già presenti sul nostro territorio. Questo, ovviamente con un respiro ampio, su base quinquennale o decennale. Lei che ne pensa?

È certamente una delle strade. Ma prioritariamente quel che serve è da un lato rafforzare strutturalmente soggetti pubblici, privati o pubblico-privati che svolgano attività di ricerca e quindi intervenire non tanto e non solo finanziando specifici progetti, ma rafforzando sull’aspetto istituzionale. Penso al rafforzamento dei centri di ricerca nelle imprese. Penso ai centri del CNR per avere una presenza di attività strutturali e continuative a monte dei processi di innovazione che durino nel tempo. Dall’altro lato, certamente bisogna lavorare sui soggetti e sulle attività di diffusione di innovazione, per portare alle imprese e alle amministrazioni pubbliche le possibilità innovative che sono disponibili a scala internazionale. Da questo punto di vista, i Centri di Competenza che sono previsti dal ministro Calenda col progetto Industria 4.0 potrebbero essere un primo inizio coinvolgendo le strutture già esistenti sul territorio. L’aspetto di diffusione è particolarmente rilevante in quanto serve ad accrescere le potenzialità competitive delle imprese che sono al Sud.

A proposito di “Industria 4.0” Svimez sottolinea, nel recente Rapporto 2016 e anche lei, in un recente articolo, che la fruizione nel Mezzogiorno di tali risorse è ridotta al minimo

Questo va da sé, trattandosi di misure che avvantaggiano i produttori di macchinari e attrezzature, che sono nella stragrande maggioranza localizzati al Centro-Nord e che favoriscono le imprese già strutturate che svolgono attività più innovative. Proprio per questo le attività di rafforzamento e diffusione dell’innovazione sono propedeutiche a qualsiasi tipo di investimento.

Il modo in cui vengono distribuite le risorse tra le università nazionali sta visibilmente danneggiando quelle del Mezzogiorno. I giovani che hanno deciso di immatricolarsi al Nord, per esempio, secondo un recente studio del Censis, hanno drenato risorse, dal Sud verso il Nord, pari a circa 2.5 miliardi di euro negli ultimi dieci anni, solo per le tasse universitarie. Lei cosa pensa si possa fare per un riequilibrio nella distribuzione delle risorse?

Senza scomodare il Censis, nell’indagine molto più approfondita che abbiamo fatto noi con la fondazione Res, stimiamo appunto che il costo annuo di tasse universitarie, vitto e alloggio degli studenti meridionali che studiano al Centro-Nord è di 2.5 miliardi ogni anno, come trasferimento corrente. Esso è dato da una semplice moltiplicazione del numero di studenti per il livello medio delle tasse per il livello medio dei costi di abitazioni e alimenti e tempo libero, nelle città del Nord. Quel che colpisce è che questa migrazione sia stata favorita negli ultimi dieci anni dalle politiche pubbliche, che hanno limitato l’offerta di corsi, in particolare nelle regioni del Mezzogiorno, impedito lo sviluppo di nuove attività e di miglioramento qualitativo e ridotto sempre di più la consistenza degli Atenei. Non si tratta di vietare o condizionare le libere scelte degli studenti. La mobilità è un fattore estremamente positivo. Il punto è che ci sono delle condizioni per cui questa mobilità diventa a senso unico e nei confronti di queste condizioni andrebbero fatte politiche pubbliche per aumentare le scelte degli studenti e non per ridurle.

Secondo lei, con la classe dirigente meridionale, fatte le debite eccezioni, possiamo permetterci un’accelerazione in senso autonomista?

La reazione delle classi dirigenti meridionali a questa nuova discussione sull’autonomia, che nasce dai referendum al Nord, è stata assolutamente inconsistente. Né sul piano tecnico – come analisi della situazione e dei rapporti economici tra le diverse regioni –  tanto meno, sul piano politico, è stato fatto assolutamente nulla. Questo dipende da più fattori: dal fatto che una parte delle classi dirigenti politiche ha un rapporto di sudditanza con i vertici nazionali delle proprie organizzazioni e quindi tende a non assumere posizioni scomode; dal fatto che una parte privilegia la propria carriera politica personale rispetto agli interessi della collettività; dal fatto che una parte è più interessata a risorse economiche di diretta intermediazione rispetto a ragionamenti politici generali sull’allocazione delle risorse. La rivendicazione piatta di maggiori competenze per le regioni del Mezzogiorno mi sembra un punto di vista particolarmente superficiale. Non è detto che sia la cosa migliore e va valutata con grande attenzione. Ma soprattutto manca il problema perché non c’è nulla di male nella richiesta di una maggiore autonomia di determinati ambiti nelle regioni forti nel paese. Se è ben fatto, questo processo, limitato ad alcuni ambiti molto specifici, può essere del tutto neutrale per le altre parti del paese. Quello che rileva è che di fronte a questa forte richiesta di risorse non si è alzata una sola voce nelle classi politiche del Mezzogiorno per contrastarne le tendenze più negative.

Secondo lei potrebbe essere la Costituzione il punto fermo da cui ripartire per fare del Mezzogiorno un’opportunità di riscatto per tutto il paese?

Assolutamente sì. Quello rimane tutto un programma ancora da realizzare, da due punti di vista: uno, molto generale, che è nella tendenza, che non dovrebbe mai venir meno, a garantire a tutti i cittadini italiani gli stessi diritti costituzionali indipendentemente da dove vivono e quindi la stessa qualità e quantità di servizi disponibili (istruzione, sanità, welfare e assistenza); l’altro punto di vista è la chiara indicazione costituzionale, contenuta nell’articolo 119, secondo cui l’obiettivo comune di tutti gli italiani è quello di avere delle distanze in termini di sviluppo interne al paese il più possibile ridotte. Ciò dovrebbe costituire non un motivo di conflitto, come oggi avviene fra rappresentanze territoriali, bensì un obiettivo comune, dato che da un maggiore livello di sviluppo nel Mezzogiorno non trarrebbero beneficio solo i meridionali ma lo sviluppo e il benessere dell’intero paese.