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A scuola ci vuole un minimo di decoro

26 settembre 2017 | 09:52
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A scuola ci vuole un minimo di decoro

A Rimini una preside invita gli studenti a non indossare jeans strappati e ciabatte per entrare in classe

Ci vuole un minimo di decoro dice la Preside di una scuola di Rimini, invitando gli studenti a vestirsi adeguatamente per entrare in classe.

Per anni la nostra generazione, la mia, ha rifiutato le norme severe che si riferissero al dover essere “per bene” snobbando tutti i termini del vocabolario del bon ton.

Così intendevamo, presi dall’ebbrezza della libertà di acconciarci come volevamo, dal modello dei figli dei fiori (pantaloni strappati, dall’aria sciatta e stinti, capelli selvaggi); presi da movimenti che contrastavano l’austeritas che ci aveva accompagnati sino alla liberazione dei costumi…

Anche Mary Quant ha esercitato un fascino notevole sulle ragazze e sulle meno giovani, con la nuova e rivoluzionaria proposta di moda della minigonna. L’abbiamo indossata in molte con più o meno discrezione, con più o meno indisponenza.

Era una guerra contro il passato, con tutta la baldanzosità della giovinezza, fatta di sfide, sempre. Senza esclusione di colpi.

Ora la parola decoro mi ricomincia a dire qualcosa, senza quel sapore di vocabolo uscito dalla sagrestia e posso anche datare il risveglio del suo giusto significato.


Una studentessa aveva fatto il suo ingresso in classe vestita di un qualcosa che le copriva l’addome e i fianchi, soltanto.

Nelle movenze persuasive ricordava quella bellissima attrice bionda che pubblicizzava un prodotto, seguita da un gomitolo che le si srotolava man mano che camminava, muovendo sapientemente le natiche.

Come persuasivo era il modo di sedere nel banco. Aveva fatto spostare i maschietti stipati in fondo in fondo, attirati dall’ape regina.

Dovetti prendere posizione, dopo qualche giorno e la cosa, ovviamente, non piacque né alla graziosissima studentessa, né ai suoi compagni. Privati di così tanta grazia femminile.

Preside di Rimini, sono d’accordo con lei.

Maria Teresa D’Aiuto