Donne e mobbing: Ho sperato di morire in un incidente nel tragitto casa lavoro

2 giugno 2017 | 12:30
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Donne e mobbing: Ho sperato di morire in un incidente nel tragitto casa lavoro

È in una scuola che la vita di Antonella cambia fino a sfociare nella depressione. Il suo lavoro diventa il suo peggior nemico. “Sono arrivata al punto di sperare di morire in un incidente nel tragitto da casa al lavoro”. Il mostro che l’ha risucchiata si chiama mobbing.

Con la storia di Antonella apriamo il nostro approfondimento “Donne e Mobbing in Basilicata”. Vi racconteremo di come il lavoro può diventare persecuzione, le reazioni e le denunce di donne che nonostante tutto hanno dovuto soccombere alla paura di essere licenziate.

Antonella. Nel 2012 la donna viene assunta come “receptionist”  in una scuola privata di Potenza che faceva anche corsi di formazione in vari ambiti, doposcuola per bambini, recupero per gli studenti che dovevavo colmare lacune in alcune materie. Sul contratto però la sua assunzione viene classificata come “operatrice amministrativa”, a tempo indeterminato, part-time di 3 ore e mezza al giorno, paga mensile 450-500 euro. Questo sulla carta.

Ben presto però, Antonella si scontra con una realtà diversa. “Man mano, che le iscrizioni diminuivano l’ambiente lavorativo diventava sempre più ‘inquieto’. I titolari della scuola, marito e moglie, cominciarono ad alzare i toni verso la collega che faceva il turno di mattina, fino a condurla al licenziamento. La stessa fine fece la donna delle pulizie. Mancano i soldi: erano queste le giustificazioni dei titolari”. Al venir meno delle due figure, Antonella si ritrova a svolgere mansioni diverse da quelle ricoperte sino ad allora, lavorando sei ore al giorno e ricevendo, però, sempre lo stesso stipendio.

“E’ una cosa che devi fare tu”! Con questa frase mi ordinavano di spazzare, lavare a terra, soprattutto, nell’aula dove si teneva il corso da estetista, allestire le aule per festeggiare il compleanno di un bambino e ripulire il tutto, svuotare i cestini, alzare ed abbassare, ogni sera, un centinaio di sedie”. Antonella, obbligata a fare questi sforzi fisici con la gonna e i tacchi – divisa che doveva indossare – lamentava un forte mal di schiena. A queste mansioni doveva affiancare quelle per cui era stata assunta e dunque dare informazioni esaustive per chi voleva iscriversi alla scuola, interagire con i corsisti, con i ragazzi, con i genitori dei bambini e con i docenti, rispondere al telefono, preparare documenti per le iscrizioni. “A tutto ciò -racconta Antonella- va aggiunto il comportamento della titolare che si divertiva a creare attriti tra me e la mia collega, e che andava su tutte le furie se un genitore chiedeva a me delle informazioni piuttosto che a lei. Addirittura ci ordinarono di limitarci a parlare con i genitori solo delle previsioni meteorologiche e dell’andamento della giornata”.

Dalle pulizie alla vendita di merendine. Nel gennaio 2016, dopo una serie di episodi umilianti, Antonella si rende conto di essere vittima di mobbing. Il primo: nel febbraio 2015, si opera alla tiroide. Il titolare, nonostante, la comunicazione preventiva dell’intervento e dell’assenza – fornita da Antonella – la incita a riferirgli quanto tempo sarebbe rimasta a casa e al suo ritorno la deride dicendole: “per un intervento così piccolo sei rimasta così tanti giorni a casa”. Il secondo: il 4 gennaio 2016, giorno di rientro al lavoro dopo le vacanze natalizie. “Muore la madre di un amico e comunico al lavoro che sarei mancata per un’ora, il tempo del funerale e poi avrei, comunque, svolto le mie ore di lavoro. Il titolare infuriato mi disse: “A me non interessa il tempo che impieghi a dare le condoglianze. Ti dovevi organizzare prima”. Il terzo episodio trascina Antonella nel baratro. “La titolare della scuola, a Natale e a Pasqua, aveva regalato ai bambini dei cioccolatini a cui era legato un cartoncino, ossia un buono da consumare in merendine o bibite. Notando la riuscita positiva dell’iniziativa ebbero un’idea per aumentare gli introiti: mi costrinsero a passare per le aule con un carrellino pieno di snack e bevande che i bambini compravano al costo di 50 centesimi, nella pausa tra una materia e l’altra”. Antonella racconta, con il nodo in gola, di un’umiliazione mai subita prima. “Per appesantire la circostanza, in quell’ora di pausa, verso le 17, dovevo svolgere varie mansioni contemporaneamente: passare il carrellino, raccogliere i soldi, segnare le ore di chi usciva e di chi entrava, pulire le aule. Sono stata disposta a farlo solo due tre volte”.

Il mobbing in Italia. L’Italia è in ritardo rispetto agli altri Paesi, non a caso, il mobbing non ha ancora una specifica attenzione legislativa. Dal punto di vista giuridico esistono, però, diverse norme, costituzionali e civilistiche, che permettono di difendersi dai comportamenti persecutori che avvengono in ambito lavorativo. Nel codice penale non è previsto il reato di mobbing anche se, spesso, esso si può inquadrare in atti illeciti che conducono al mobbing come l’abuso di potere, di ufficio e le molestie sessuali.

In Basilicata: la legge senza fondi. “Intervento della Regione Basilicata per prevenire e contrastare il fenomeno mobbing e lo stress psico-sociale sui luoghi di lavoro”. Per trarre un giudizio è bene fare, prima, un confronto con la legge regionale del Veneto. Gli articoli pressoché sono identici: inviolabilità della dignità umana, finalità e ambito di applicazione, definizioni, attività di formazione, informazione e ricerca, istituzione di un osservatorio regionale, sportello di riferimento regionale e di assistenza sul mobbing e monitoraggio e valutazione. La differenza risiede nell’articolo della norma finanziaria: mentre la Regione Veneto ha stanziato per l’attuazione della legge 350.000,00 euro, la Regione Basilicata solo 20.000.00 euro. Ma oltre la beffa il danno: la proposta di legge è stata approvata in IV Commissione e bloccata in II Commissione per mancanza di fondi. Dunque, i lucani mobbizzati non hanno alcuna protezione regionale. I lavoratori spesso non hanno né la conoscenza né la sensibilità per capire questa forma di disagio psicologico. Inoltre, le vittime difficilmente accettano di essere oggetto di mobbing e tendono ad addossare la colpa della situazione interamente a loro stesse, interrogandosi in modo quasi morboso e doloroso, con un attento esame di coscienza. Hanno paura di parlare pensando che l’azienda possa licenziarle.