Quelle analisi mai fatte ai pozzi Eni di Pisticci: “Lascia stare lì c’è la merda”

5 dicembre 2015 | 17:35
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Quelle analisi mai fatte ai pozzi Eni di Pisticci: “Lascia stare lì c’è la merda”
Quelle analisi mai fatte ai pozzi Eni di Pisticci: “Lascia stare lì c’è la merda”
Quelle analisi mai fatte ai pozzi Eni di Pisticci: “Lascia stare lì c’è la merda”
Quelle analisi mai fatte ai pozzi Eni di Pisticci: “Lascia stare lì c’è la merda”
Quelle analisi mai fatte ai pozzi Eni di Pisticci: “Lascia stare lì c’è la merda”
Quelle analisi mai fatte ai pozzi Eni di Pisticci: “Lascia stare lì c’è la merda”

Nella prima parte di questa inchiesta abbiamo parlato della contaminazione dei pozzi della concessione di coltivazione idrocarburi Serra Pizzuta descritta nei documenti. Ma in quale altro modo s’incrociano passato e presente dell’indotto petrolifero col fiume Cavone?

La firma del petrolio. Se il Cavone fosse in Svezia sconsiglierebbero di stare a contatto con fanghi alla sua foce contenenti 5,9mg/kg di idrocarburi (e il pot-pourri di metalli), come ha accertato un laboratorio privato per conto del Comune di Pisticci. Lì per i suoli la massima concentrazione in attività in relazione diretta con noi (ingestione, inalazione, e contatto, ndr), è 3. Lo ricorda Olof Lindén in uno studio sull’Ongoniland nigeriano impattato dall’industria del petrolio. Certo 3 o 6 sono cifre ridicole rispetto ai 17.900mg/kg riscontrati da Lindén in Nigeria, ma che assumono importanza se pensiamo che dove si estrae olio nella concessione Serra Pizzuta che interagisce col fiume Cavone, di idrocarburi pesanti ne sono stati trovati sino a 154mila mg/kg, tremila volte oltre i limiti.In ogni modo tempo fa l’Organizzazione mondiale della sanità ha reso nota la firma dell’inquinamento petrolifero. Gli elementi chimici potenzialmente pericolosi dei quali è accertata la destinazione finale in falde acquifere dove c’è l’industria degli idrocarburi (estrazione, raffinazione, smaltimento, ndr) sono arsenico, bario, boro, cadmio, piombo, manganese, mercurio, nickel, selenio, uranio, bromo, litio, tallio, riscontrate con valori nettamente superiori a quelli naturali e di sicurezza sanitaria (foto1).

Come si usano i limiti?Le analisi eseguite sul campione in esame – scrisse l’Arpab in merito ai fanghi neri alla foce del Cavone – non hanno evidenziato presenza di idrocarburi e relativamente alla presenza di metalli pesanti nei sedimenti fluviali (tra cui mercurio, nichel e piombo) la normativa vigente (D.Lgs 152/2006) non prevede concentrazioni limite”. Nel 2009 l’Ispra scrisse in uno studio che a livello nazionale non sono stabiliti “standard di qualità” dei sedimenti nelle acque interne e sono spesso “utilizzati impropriamente” i limiti fissati per i suoli nella 152, nonostante un decreto del 2009 stabilisca nuovi criteri di monitoraggio e classificazione dei corpi idrici. Arpab ci ha confermato che i limiti per idrocarburi e altri metalli sono esagerati per sedimenti di acque interne e marino-costiere, ma il giorno in cui abbiamo chiesto quali analisi stavano svolgendo sul loro campione ci è stato risposto solo idrocarburi. Perché non si stavano considerando i metalli pesanti parte dell’impronta chimica dell’industria del petrolio? I nuovi standard che caratterizzano lo stato chimico di un corpo idrico, proposti come parametri vincolanti, e il cui superamento obbliga ad attivare procedure di gestione, in ogni modo non sono stati considerati. Il nuovo decreto li elenca per sostanze prioritarie, prioritarie pericolose, e rimanenti nelle diverse matrici dei corpi idrici marino-costieri e di transizione (foto2). Se si fossero usati questi limiti come avremmo interpretato i dati? Limiti impropri o meno, 48 ore dopo le prime analisi private nessun Ente s’è chiesto che ci faccia il mercurio nei sedimenti alla foce del Cavone, perché scompaiono tracce di idrocarburi e metalli come cadmio cobalto e vanadio, appaiono arsenico, cromo totale, nichel, piombo, e aumentano zinco e rame.

Il contesto idrologico. Anche in Basilicata le acque superficiali e sotterranee del Cavone come quelle di tutti i bacini idrici del pianeta terra, ferme non stanno. Nel caso nostro il movimentolo spiega ilCnr-Irpi di Bari che ha studiato la Piana di Metaponto e i suoi due tipi di acquiferi. Uno interno fatto di acquiferi costituiti da depositi marini terrazzati e depositi alluvionali nelle valli fluviali che danno vita anche a sorgenti, e sono accomunati dalla “circostanza che ciascuno interrompe la continuità degli adiacenti” e dalla direzione principale verso costa. Si tratta di un sistema di acque a monte e “in particolare le sue acque sotterranee provenienti dai depositi dei terrazzi marini”, che alimenta l’altro acquifero, quello costiero di circa 40km lungo la fascia ionica e alcuni chilometri tra il mare e l’interno. L’Irpi ha analizzato 158 pozzi da cui s’abbevera anche l’agricoltura, e riassunto in una tabella l’impronta chimica delle acque sotterranee (foto3). Di naturale ci troviamo calcio, magnesio, potassio, cloro, e solfati. Solfati che solo nei depositi alluvionali raggiungono picchi di 804mg/l. Il resto è “contributo antropico”, presente dicono, specialmente tra Agri e Cavone e tra Basento e Bradano, zone caratterizzate da una “maggiore permeabilità che favorisce l’infiltrazione degli inquinanti nell’acquifero costiero”. Resta che di recente, analizzando acque e sedimenti di alcune sorgenti multicolori di un versante a monte del Cavone, e di un argine del fiume più a valle, è venuta fuori contaminazione. L’acqua (foto4) che riemerge da sotto terra contiene solfati, manganese e arsenico fuori legge, e presenta anche boro ferro zinco cadmio rame e idrocarburi totali. Più a valle lungo il fiume risulta contaminata da boro, manganese e ferro. Una strana coincidenza che molte di queste sostanze siano annoverate dall’OMS come parte dell’inquinamento delle falde da parte dell’industria petrolifera, e siano state trovate dalla stessa Eni nei pozzi contaminati.

Informare o non informare, questo è il problema. Certo nel 2010 una relazione del Distretto idrografico dell’appennino meridionale descriveva uno “stato ambientale fortemente compromesso” del Cavone, con decine di criticità tra cui “carenza informativa” in termini di stato della risorsa idrica e conoscenza dei fattori di pressione, processi di informazione, partecipazione e formazione dei portatori di interesse e cittadinanza, e carenza informativa su “inquinamento e alterazioni di suoli, acque superficiali, sotterranee e marine costiere”. C’era poi da considerare la presenza di aree a elevato rischio ambientale spiegate da un quadro di sintesi dell’Autorità di bacino lucana (foto5). Sul Cavone c’è un’industria a rischio incidente rilevante, immaginiamo il Centro Olio Eni, ma bisogna anche tener conto dei siti interessati da attività minerarie in corso o dismesse. E oltre il Centro Olio insistono decine di pozzi della concessione Serra Pizzuta come abbiamo visto, e una discarica, la Ecobas srl del Gruppo Iula che ha chiesto l’ennesimo allargamento senza che né un amministratore né Legambiente né altre associazioni abbiano presentato obiezioni. A quanto pare si preferiscono le obiezioni a giornalisti che rilevano i problemi del territorio. Eppure con i rifiuti petroliferi (e non solo), lo sanno i pisticcesi che Ecobas ci lavora da decenni. Negli anni Novanta finì sotto sequestro in un’inchiesta per smaltimento illecito di rifiuti tossici chiusasi con condanne agli amministratori Iula Berardino (9 mesi, ndr) e Iula Giacomo (8 mesi, ndr), nominati poi grazie a un benevolo pubblico ministero custodi dei beni sottoposti a sequestro restituendogli di fatto la discarica, e al chimico che firmava le analisi dei rifiuti Roberto D’Arienzo (con sanzione sostitutiva pecuniaria di 6.750.000 lire, ndr) che oggi le firma anche per il Comune di Pisticci, come per i fanghi alla foce del Cavone. Una condanna con pena sospesa, riporta la sentenza della Pretura di Pisticci, così se per 5 anni non avessero commesso reati dello stesso tipo sarebbe risultata non apposta. Intanto ci risulta non ha mai avuto un controllo da parte di Arpab, non esistono analisi chimiche di cui abbiamo chiesto gli atti se non quelle in regime di autocontrollo attraverso la Ecosud srl del Gruppo, che cura anche per Eni le caratterizzazioni di pozzi e aree inquinate.

Sindaco, professore, e indagini sconsigliate. Ancora nel 2011, quando il sindaco di Pisticci Vito Di Trani sollecitò un professore del Cnr a realizzare un’indagine sulle aree dei pozzi Eni nelle quali la multinazionale Geogastock spa aveva intenzione di stoccare gas, riaffiorano strani dettagli sui pozzi di Pisticci. Il sindaco in quel periodo si preoccupava dei rischi, e il professore gli disse che avrebbe dovuto fare una formale richiesta di intervento al suo direttore, e dopo aver ricevuto preventivo e parere favorevole sarebbe venuto con un’equipe per le analisi. Tutto nella norma. Ma tutto tacque. Il Cnr non si fece più vivo. Dopo lungo silenzio il professore, ricontattato, raccontò al telefono che il suo direttore aveva incontrato alcuni ricercatori che gli avevano “sconsigliato” d’accettare l’incarico perché “lì c’è la merda”. “Lascia perdere – gli dissero – che ci troviamo in mezzo a un casino”. Poi ancora silenzio. E una nuova telefonata, ma questa volta il professore riferì che per quello stesso progetto di analisi dei pozzi il suo direttore aveva avuto identica proposta da una multinazionale. Geogastock, Eni? Certo la Geogas srl, ossia Geogastock, uno studio su Serra Pizzuta lo ha poi fatto, individuando un “livello coltivato” di nove pozzi chiusi dal ’91 “per autocolmamento di acqua di strato e sabbia” dice. Scrisse pure che tra quei nove pozzi individuati uno solo era in un blocco separato idraulicamente, e che a 771 metri sotto il livello del mare c’era “una tavola d’acqua indipendente”. Nelle simulazioni il livello dei pozzi risultò caratterizzato da “una forte spinta d’acqua” e la “buona produttività della formazione” non poteva essere sfruttata per il “rischio elevato di water coning”, la piaga dell’industria petrolifera la chiamano gli esperti, quando il livello d’acqua invade quello del petrolio e non c’è più profitto a tirarlo su. Oltre a creare un possibile caos idrogeologico dove fanno estrazione petrolifera da cinquant’anni sino a 2.000 metri, ci siamo chiesti in quale “casino” si sarebbe potuto trovare il Cnr?

Pozzi e veleni.Giuseppe Giove, Comandante del Corpo Forestale dello Stato a Brescia, racconta intervistato che quando nella Forestale lucana affiancava il lavoro investigativo sui traffici di veleni in Basilicata del procuratore Nicola Maria Pace, “colleghi di Brescia stavano facendo un’indagine su uno smaltimento di scorie radioattive e c’informarono di movimenti dalla Lombardia. Monitorammo Ecobas e riscontrammo anomalie. Sia con Franca Macchia (sostituto procuratore, ndr) che con il procuratore Pace estendemmo le indagini e arrivammo alla Cemerad a Taranto (società agganciata a P2 e con collegamenti con società dei casalesi nella gestione illecita dei rifiuti radioattivi, ndr), e vedemmo che c’erano vari rapporti tra Cemerad, che aveva relazioni pure con società che gestivano il sito nucleare Trisaia, ed Ecobas, e nello stesso tempo arrivammo a seguito di una serie di confidenze ai pozzi dove ci fu detto che venivano smaltiti”. A Pisticci continua Giove, vennero monitorati tre pozzi Agip gestiti da Ecobas e gli accertamenti misero in evidenza materiali molto pericolosi come toulene arsenico cadmio mercurio che “erano stati sicuramente sversati”. E c’era il dubbio che migliaia di pozzi in tutta Italia fossero stati utilizzati in questo modo. Veleni trovati pure nella discarica, e in alcuni piezometri al suo esterno che captavano “vene d’acqua sospese”. La contaminazione delle acque del sottosuolo per il consulente della Procura indicava “una lesione dell’ambiente già in atto”. Certo nel ’93 in una lettera di assenso la Ecobas dichiarava la disponibilità ad accettare tramite Econova srl di Brindisi centomila chili di rifiuti dalla Cemerad. Quell’anno la provincia di Brindisi chiese alla Regione Basilicata se Econova era stata autorizzata e la Regione Basilicata rispose che non lo era. Se Econova abbia portato o meno rifiuti e quali non sappiamo, nel 2007 la Ecobas autodenuncia anche la scomparsa di registri di carico-scarico. Gli unici registri da noi trovati e visionati raccontano che nel ’95 Cemerad portò direttamente 9.220 chili di rifiuti tra residui di sabbiatura, materiali contenenti amianto, contenitori spray, morchie e cabine di verniciatura, stracci e contenitori sporchi di solventi, inchiostri, vernici. E tramite la Sud Eco srl di Bari portò fanghi e 9.880 chili di ceneri, scorie, e polveri da combustione.

Rifiuti fantasma? In quell’elenco rifiuti del ’95 c’ è poi il codice relativo ai “fanghi inertizzati” a far porre qualche domanda. È un codice che conduce a un solo “produttore”, la Fratelli Dioguardi spa di Brindisi con 3.200kg, ma alla voce “trasportatorecompaiono invece la Idrodinamica Spurgo di Nardò che consegna in Ecobas proprio 3.200kg, e la Eco Geo Drilling RGMB srl di Foggia (EGD, ndr), che ne porta 453.120 chili. Chi aveva prodotto quei quattrocentomila chili di fanghi inertizzati? Certo in quel periodo “la EGD di Rocco Bonassisa nel potentino aveva trasformato una piattaforma di stoccaggio in una discarica abusiva- scrisse la magistratura- e rifiuti speciali erano stati fatti passare per materiale riutilizzabile”. Il decreto di sequestro della piattaforma, eseguito nel marzo del ’96, fu annullato dieci giorni dopo solo perché non preceduto dalla notifica dell’informazione di garanzia all’amministratore unico Gerardo Bonassisa (come è stato possibile?), indagato nel procedimento insieme ai legali rappresentati di altre due società (chi?) che si occupavano della movimentazione e del trattamento di rifiuti petroliferi, efinito più di recente nel foggiano col Gruppo omonimo nella inchiesta su una presunta “Gomorra dei Monti Dauni”. Ma la EGD non portò in Ecobas solo fanghi inertizzati ma anche milioni di chili di “altri fanghi di natura prevalentemente inorganica”. Su un totale di ben 12.581.321 chili registrati come trasportati quell’anno, la sola EGD ne scaricò in Ecobas 7.285.820 chili. Nell’elenco il totale di questo tipo di rifiuto alla voce “produttori” è 5.498.160, molto al di sotto del quantitativo trasportato persino dalla sola EGD (foto6). Come spiegare milioni di chili di rifiuti di cui nulla si sapeva della provenienza?

Rifiuti di perforazione tal quale e autorizzazioni. Certo la Regione Basilicata aveva ribadito che in Ecobas era prioritario lo smaltimento di rifiuti regionali, ma l’allora presidente della Provincia di Matera Grieco in più di qualche lettera inviata in altre regioni per le richieste di informazioni che arrivavano sugli smaltimenti in Ecobas, ribadiva sempre che l’autorizzazione aveva “prescritto” sì la priorità ai rifiuti regionali, ma non aveva “precluso” il conferimento di quelli fuori regione. Dal registro di carico-scarico del solo febbraio ’95 si capisce che dalla Basilicata erano arrivati 24.840kg di “fango di perforazione tal quale” e 29.600kg di “altri fanghi di natura prevalentemente inorganici” dal pozzo Grottole1 nel materano, e 196.520kg di “fango di perforazione tal quale” e 615.760kg di “fanghi inertizzati” da Tempa La Manara (concessione Costa Molina, ndr). Da fuori erano arrivati invece 311.520kg di fanghi inertizzati e 197.780kg di “fango di perforazione tal quale” da Senese1 in Molise. Altri 113.060kg di fanghi inertizzati da Aquila3, di fronte le coste pugliesi del brindisino, da cui arrivarono anche 360.580kg di “detriti tal quale di perforazione”. Ben 1.346.060kg di detriti di perforazione arrivarono dal pozzo San Giorgio a Liri tra Lazio e Campania in mano alla Petrex spa (cioè sempre Agip, ndr), che ha avuto a che fare sin dagli anni Sessanta con la Basilicata del petrolio col pozzo esplorativo Castellana1 (permesso di ricerca Monte Sirino, ndr), e partner del Gruppo Bonassisa. In quel solo febbraio erano arrivati in Ecobas 3.195.720kg di rifiuti petroliferi ma al Dipartimento ambiente della Regione Grieco scrisse che il totale di rifiuti extra regionali di quel mese era di 736.314kg benché solo la Petrex ne aveva fatti arrivare oltre un milione di chili dalla Campania. Nella consulenza della procura depositata nel ’96 si scrisse che i reflui minerari, anche se disidratati, erano lasciati a cielo aperto in Ecobas (foto7), e la pioggia creava notevoli quantità di percolato, tanto che in due piezometri esterni gli idrocarburi policiclici eccedevano i limiti di quasi due grandezze, fattore molto importante, disse il consulente, vista la loro cancerogenicità.

Una terra da esperimento a basso costo. Ad ogni modo da tempo il territorio di Pisticci pare una testing area. Adesso a Pisticci Scalo vogliono sperimentare la trasformazione di rifiuti speciali in combustibili tramite catalizzatore, ma il Dipartimento dell’energia Usa, in un volume sulla liquefazione del carbone, spiega che dal ’82 al ’87 a Pisticci un “impianto industriale prototipo” ha lavorato, grazie a catalizzatori allo zinco, cromo, rame, cobalto, ben 15milioni di chili l’anno di materia prima per farne “super e”. Stessi catalizzatori e stessi processi industriali da usare oggi? Pare di sì. Quali e quante emissioni abbia poi prodotto questa specie di raffineria che in sei anni ha lavorato 90milioni di chili di benzina non si sa. Nel pisticcese Agip iniziò a succhiare idrocarburi da una roccia calcarenitica del cretaceo negli anni Sessanta, e venticinque anni dopo spiegò che la concessione era stata meta d’un “esperimento pilota”. Nel ’88, e sebbene la riserva era litologicamente diversa dai campi in mar Adriatico che si volevano sfruttare per le “consistenti riserve”, presentava similitudini riguardo eterogeneità, presenza e distribuzione delle fratture, viscosità e base chimica naftenica degli idrocarburi, bassa produttività dei pozzi, e soprattutto si prestava come miglior candidata a test di iniezione di CO2 per il “costo molto più basso” rispetto a quanto avrebbero speso in mare. Per risparmiare fu quindi scelto Pisticci13, che dal ’64 a quel primo ciclo di iniezione del novembre ’85 aveva prodotto 213.770 metri cubi di petrolio. E almeno tra il doppio e il triplo di metri cubi di rifiuti petroliferi. Per farvene una idea pensate che una piscina olimpionica occupa un volume di 2.500 metri cubi. Fecero due cicli di iniezione a centinaia di gradi, così il vapore sparato nella terra avrebbe inzuppato la formazione calcarenitica e il petrolio caldo sarebbe potuto essere succhiato fuori. Nella prima fase vennero iniettate a duemila metri di profondità 190 tonnellate a “condizioni super critiche”. L’anno dopo usarono prima acidi per rimuovere le ostruzioni, e poi in sedici ore altri 190mila chili di CO2 bollente vennero iniettati nella terra. E la tavola d’acqua a 700 metri come avrà reagito? Qualcuno se lo è mai chiesto?

Fracking ante litteram? Esistono giacimenti non convenzionali in cui gas e petrolio sono intrappolati anche nella microporosità della roccia e per via dell’argilla scarsamente permeabile necessitano di trattamenti altamente inquinanti. Lo dicono gli esperti di settore. E Agip descrive la concessione sede dell’esperimento come una riserva rocciosa in due blocchi con una percentuale d’acqua tra il 15 e il 45%, e usa un termine particolare, “vuggy”, cioè piena di piccole cavità e fratture che orizzontalmente e verticalmente specifica, hanno “caratteristiche petrofisiche estremamente variabili”. Pompando CO2 aumentò la produttività, ma dicono che vi furono “effetti sfavorevoli” come gocciolamenti dal flusso di petrolio e la precipitazione degli asfalteni, una miscela di composti aromatici condensati, zolfo, azoto, ossigeno e metalli come vanadio, nichel, ecc. ogni qual volta la CO2 veniva in contatto col petrolio. Quale è stato il comportamento di questo fluido caldo? Cosa è accaduto alle acque presenti tra fratture e cavità dal momento in cui sono state sottoposte a temperature e pressioni critiche? Sono stati utilizzati anche fanghi di perforazione e acidi contenenti solfuro di molibdeno, o di arsenico, mercurio, ecc. che hanno interagito con le acque sotterranee se oggi analisi in aree in cui Serra Pizzuta ricade presentano tali sostanze? Vent’anni dopo l’esperimento terreni del pozzo presentavano ancora arsenico da 11,2 a 13,6mg/kg su limite 20 della152, cromo totale da 69 a 74 con limite 150, rame da 24 a 26 con limite 120, piombo a una media di 12 con limite 100, vanadio da 72 a 79 con limite 90, zinco da 85 a 87 con limite 150, e solfati.

La mappa dell’inquinamento che si conosceva. Quando parliamo di pressioni dell’industria petrolifera sul sistema ecologico del fiume Cavone parliamo dunque di un contesto ambientale che ha una storia di esperimenti, reiniezione di acque di strato, smaltimenti illeciti in pozzi tombati e di una discarica che ha ancora un ruolo notevole nella gestione dei fanghi petroliferi, e ha già percolato sostanze tossiche in falda con tanto di certificato di danno ambientale. Discarica che vicino vede il pozzo Pisticci6, in cui abbiamo documentato oggi una collinetta rialzata alla sua destra con un laghetto sopra da cui percola un liquido rosso e olioso (foto8), e che alla base vede un bocchettone incustodito con un tubo che si infila proprio nel laghetto (foto9). Un liquido trovato in altri contesti lungo il Cavone da un versante all’argine (foto10-11). E parliamo di pressioni dirette, messe assieme nel 2009 in una determinazione dell’Ufficio ambiente del Comune di Pisticci che approva Piano di caratterizzazione e progetti di bonifica di “siti inquinati da parte di Eni spa” e la “presa d’atto dei siti non inquinati”. Comune quindi da anni al corrente che solo sei pozzi, stando a Eni, non avevano subito una contaminazione, pozzi che divennero cinque perché proprio per Pisticci6 Arpab comunicò successivamente il superamento dei limiti per alcune sostanze. In un rapporto di prova del 2004 leggiamo che si tratta di idrocarburi pesanti. E ne aveva una visione complessiva il Comune, tanto che produsse una cartina dell’inquinamento dei siti nella concessione Serra Pizzuta (foto12). Il piano vedeva interessata un’area in cui erano presenti dieci pozzi inquinati di proprietà soprattutto Eni, e un’altra decina per i quali era stato inviato un piano di caratterizzazione in attesa di approvazione. La quasi totalità dei pozzi insiste sul reticolo idrografico del Cavone.

Poi c’è il Centro Olio a Pisticci. Sul Registro europeo dei contaminanti rilasciati e trasferiti (EPRTR, ndr) non presenta inquinanti immessi nelle matrici ambientali ma solo rifiuti trasferiti. Pare non esistere, non battere ciglia. Andrea Gagna, responsabile EPRTR, spiega che “il fatto che il Centro Olio Pisticci non dichiari emissioni in atmosfera rispetto al Centro Olio Val D’Agri (COVA, ndr) non significa affatto che non abbia emissioni in atmosfera”. Le emissioni non sono comunicate perché minori della soglia stabilita. In sostanza dobbiamo pensare a due complessi industriali che svolgono la stessa attività sotto circostanze operative che determinano “il superamento o meno delle soglie per la dichiarazione delle emissioni/trasferimenti”. La differenza tra i dati comunicati dal Centro Olio Pisticci e il COVA è da ricercare unicamente nel “diverso regime produttivo”, e in Val D’Agri “è mediamente circa 230 volte più alto” di Pisticci. Semplificando dice Gagna, le emissioni in aria di Pisticci non dichiarate possano essere stimate dividendo quelle dichiarate del COVA per 230″. Scopriamo così che in dieci anni il COVA ha sparato in aria 2,6milioni di tonnellate di CO2, 5.201,1 tonnellate di SOx, e 1.262,2 tonnellate di NOx, e che Pisticci avrebbe immesso 11.304,3 tonnellate di CO2, 22,613 tonnellate di SOx e 5,487 tonnellate di NOx. Non male mandare in aria milioni di chili di CO2 e migliaia di SOx e NOx a ridosso d’un comune abitato e con attorno agricoltura e allevamenti. Il tutto sottoposto ai venti e pure all’impatto emissivo di Tecnoparco Valbasento spa di cui abbiamo raccontato emissioni (assieme a quelle di altri impianti come il COVA), e l’affare dei rifiuti petroliferi. Ma cosa e quanto finisce sul suolo e in acqua? Ci sono pure queste emissioni non dichiarate o no? Alla luce di quanto accade al COVA su come si controlla, bisognerebbe porsela qualche domanda se alla caratterizzazione dell’inquinamento di pozzi e aree petrolizzate ci pensano quasi sempre gli stessi, la Ecosud e la Bng sas del Gruppo Iula, e la Hydrolab srl (del vice sindaco di Ferrandina) attraverso la Semataf srl del Gruppo Castellano finito pure nell’inchiesta sul traffico illecito dei rifiuti petroliferi dell’antimafia lucana assieme a Tecnoparco? Di certo lungo il versante che costeggia il Centro Olio (e che poco più a monte vede impattare anche la discarica di Rsu La Recisa, e più a valle la Ecobas) le acque che vanno al Cavone non sembra abbiano una bella cera.