Acque rosse nel bosco di Ferrandina

10 dicembre 2015 | 13:28
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Acque rosse nel bosco di Ferrandina
Acque rosse nel bosco di Ferrandina
Acque rosse nel bosco di Ferrandina
Acque rosse nel bosco di Ferrandina
Acque rosse nel bosco di Ferrandina
Acque rosse nel bosco di Ferrandina

In passato operava Eni, oggi la multinazionale russa Geogastock spa. Parliamo d’un luogo in cui lo stoccaggio è priorità nazionale. Una relazione ci dice che sono dodici i vecchi pozzi Eni sfruttati per stoccare gas, 

divisi in nove aree (foto1). Sette presentano un solo pozzo (FE17, GR19, GR23, GR25, GR26, GR28, GR29, ndr), una ne ha due (GR 36-37, ndr), e un’altra tre (GR33-34-35, ndr). Qui dove si vuole far partire turismo ambientale e culturale e ci sono aziende agricole, per due mesi abbiamo seguito vari affioramenti di fanghi rossi con una patina oleosa in superficie, che lasciano un terreno nero e puzzolente di uova marce dove defluiscono. Ne abbiamo constatato la fuoriuscita a ogni pioggia torrenziale, e analizzato un campione d’acqua.

Contaminazioni pesanti dove c’è ricchezza d’acqua. Nell’area con tre pozzi vi è un “corpo acquifero” da cui “scaturiscono buona parte delle sorgenti” dice Eni nei documenti relativi alle bonifiche che ha dovuto fare prima della consegna. Sondaggi nel 2005 non misero in evidenza una falda superficiale “ma eventuali acque di imbibizione”, cioè le piogge che avevano imbevuto suoli inquinati per chissà quanto fino a quel momento. Fuori limite nei terreni c’erano idrocarburi pesanti, piombo, berillio, cobalto e stagno. Berillio cobalto e stagno che per Eni erano naturali, decidendo perciò di non trattare le “passività ambientali legate ai superamenti di tali metalli”. L’anno dopo ancora si rilevarono contaminazioni da idrocarburi pesanti, e piombo che scomparve in una seconda indagine. Nell’area con due pozzi, non distante dall’area con tre pozzi, Eni scrisse che le acque sono ospitate in “formazioni permeabili” e i depositi alluvionali posseggono falde idriche ricche. Nel 2005 nei terreni riscontrarono idrocarburi pesanti e leggeri cinquanta volte fuori limite, etilbenzene a 0,8mg/kg con limite 0,5, xileni a 3,5 con limite 0,5, composti aromatici totali a 4,3 con limite 1. L’Arpab trovò anche cromo esavalente sino a 9,82 (limite 2, ndr). L’anno dopo indagini integrative evidenziarono una situazione di inquinamento pesantissima. Terreni inzuppati da idrocarburi pesanti sino 302.790mg/kg, parliamo di seimila volte oltre il limite di legge (50, ndr). Gli idrocarburi leggeri furono riscontrati sino a 1.150mg/kg, 115 volte oltre limite. Pensando ai terreni, alle piogge, e a depositi alluvionali ricchi d’acqua, non bisognerebbe ripensare al movimento dell’acqua?

I pozzi singoli. Tra i pozzi singoli c’è Grottole19, insabbiato (?) e non in produzione, dove durante la bonifica si scrisse che riconducibili alla perforazione erano le contaminazioni da idrocarburi pesanti e mercurio. Tredici metri sotto terra venne trovata una falda acquifera, ma per Eni la mobilità di idrocarburi pesanti e mercurio era bassa, e perciò la contaminazione non poteva passare alle acque sotterranee. E le pendenze? E il movimento dell’acqua che inzuppava quei terreni? È sicura l’Eni, eppure nel pisticcese nelle acque sotterranee fu accertata contaminazione da piombo. Nondimeno poi, tra chi fa caratterizzazioni e bonifiche per Eni c’è la Ecosud srl del Gruppo Iula, condannato con la Ecobas srl nel ’96 per smaltimento illecito tra pozzi Agip e una discarica, e la Trs Servizi Ambiente srl con sede a Piacenza di Giovanni Castellano, anche lui finito in inchieste giudiziarie, l’ultima monnezzopoli lucana, e tra i protagonisti con Eni e Tecnoparco dell’inchiesta dell’antimafia sullo smaltimento illecito di rifiuti petroliferi. A Grottole 25 a superare c’erano cadmio rame e piombo, per la major petrolifera di Stato però, nei pozzi della Val Basento e della Val D’Agri cadmio e rame sono naturali. Il piombo però, quello lo aveva messo Eni. A Grottole28 si riscontrò un lieve superamento del cadmio, e in un punto Arpab trovò oltre i limiti vanadio. Furono prelevati campioni di acqua sotterranea preventivamente alla fase di spurgo da due piezometri e si constatò piombo circa quattro volte oltre la soglia di contaminazione. Questa volta era proprio colpa della pioggia per Eni, aveva imbevuto terra inquinata ma l’ipotesi di trasporto della contaminazione nelle acque sotterranee era definita “limitata”. Limitata o no, la spinta sviluppata dalla maggiore velocità in cui spesso si scaricano centinaia di millilitri d’acqua, un loro ruolo lo avranno.

Reati, pozzi e rischi ambientali insabbiati? La concessione di coltivazione idrocarburi Cugno Le Macine prima in mano a Eni oggi alla Geogastock, ha sulla sua superficie più dei dodici pozzi oggi puliti e bonificati per lo stoccaggio. E come per i pozzi di Pisticci è stata teatro di reati ambientali. Nel 1998 a Grottole 11 verso Salandra furono sversate illecitamente sostanze tossico-nocive. Quali flussi sotterranei abbiano seguito questi sversamenti non si sa. Cugno Le Macine comunque, in pieno bosco a Ferrandina, ha anche pozzi insabbiati, ed è lecito chiedersi se come per Serra Pizzuta di Pisticci si tratta di autocolmamento di acqua di strato e sabbia, se si è fatta dunque reiniezione e dove, se i pozzi sono idraulicamente connessi, con cosa e come sono stati puliti, se esiste un rischio di water coning. Ce lo chiediamo perché in un’area che a poche centinaia di metri vede i pozzi Ferrandina5 e Ferrandina15, e appena qualche chilometro più a monte altre decine di pozzi compresi quelli bonificati per stoccare gas, ci sono vari affioramenti di fanghi rossi spalmati su una vasta area (foto2-3), che presentano una patina oleosa in superficie (foto4). L’acqua analizzata è risultata contaminata da ferro (3.020µg/l, ndr) quindici volte oltre la soglia di contaminazione, e da manganese (222µg/l, ndr) quattro volte oltre. E ci sono tracce di idrocarburi totali (76µg/l, ndr), boro (58µg/l, ndr), e solfati a 45,5mg/l (foto5).

I fanghi rossi e oleosi di Ferrandina. Il ferro lo abbiamo riscontrato assieme a manganese, idrocarburi totali, boro, solfati, cadmio, rame, arsenico, zinco, e altri metalli come parte dell’impronta chimica delle acque che finiscono nel Cavone, dove ricade la concessione Serra Pizzuta che presenta fanghi rossi anch’essa. La stessa industria estrattiva dice che l’ossido di ferro e il solfato ferroso sono trovati frequentemente in pozzi di reiniezione, condotte in superficie, tubazioni, pozzi trivellati, e nella formazione. Come ossido nella contaminazione dell’aria quando s’inietta. Come solfuro per l’azione batterica delle “acque iniettate” o della “formazione” stessa. Gli specialisti del settore Oil dicono che l’ossido di ferro è comune in tutti i trattamenti con acidi, e che la principale sorgente di inquinamento resta lo strato di polveri incrostate sulle tubazioni usate per la stimolazione dei pozzi, che si stacca proprio grazie all’uso di acidi riducendo l’ammontare di ferro che finisce nella soluzione durante le fasi di iniezione di acido nella formazione. Anche i fanghi di perforazione che s’utilizzano solitamente, quelli a base d’acqua con barite (foto6), possono contenere concentrazioni molto elevate di ferro (oltre 1.000mg/kg, ndr). Sono poi presenti nelle acque rosse a Ferrandina altri marker chimici come idrocarburi pesanti e boro tipici nella filiera del petrolio, e riscontrati in altri contesti locali petrolizzati (fanghi rossi simili sono comparsi sul versante Basento di Cugno Le Macine e all’interno della concessione Serra Pizzuta, ndr). Perché da una falda a valle d’un luogo dove c’è una concessione di coltivazione idrocarburi fuoriescono fanghi rossi e acque con idrocarburi, boro, e una pesante contaminazione da ferro e dal neuro tossico manganese? Sono acque utilizzate? Entrano in relazione al ciclo alimentare? Certo cacche di mucca nei pressi di queste acque rosse ne abbiamo trovate.

Un movimento lento? In ogni modo sul pianeta ci sono tanti esempi di problemi connessi all’inquinamento di falde dovuto all’industria estrattiva. Non è cosa nuova. Nel ’65 la Texas Water Commission pubblicò un report sulla contaminazione della falda nel campo olio di Vealmoor. Pozzi abbandonati erano stati convertiti in pozzi di smaltimento di quella che viene chiamata brine o saltwater, e cioè le acque che restano dopo i trattamenti di petrolio e gas estratti per eliminare le impurità chimiche, e che le company petrolifere reiniettano. Nel ’61 nel campo olio di Vealmoor su una produzione annuale di oltre due milioni di barili di brine il 99,9% venne reiniettato in pozzi, e così nonostante la piccola superficie dei pozzi usati allo scopo la natura permeabile di alcuni acquiferi (come nel caso di Cugno Le Macine, ndr) e il tipico film oleoso presente sulla superficie della brine (come nel caso di Cugno Le Macine, ndr), indicavano che la contaminazione risultante entrata in contatto con l’acqua di falda non era “stata evidente per molti anni per via del lento movimento”.