Non chiamateci “il sesso debole”

Il sesso debole, così vengono chiamate le donne, quando si cerca di negare loro la possibilità di dimostrare che #leideegiuste non hanno genere ma solo valore. Così accade, che mentre si cerca anche grazie all’ausilio di normative nazionali e comunitarie di difendere la diversità di genere come valore aggiunto e non come sfortunato accadimento, l’unico modo per delegittimare le donne sia ancora l’accanimento sul corpo considerato solo sede di afrori e tabù. Si strumentalizza il corpo della donna ogni qual volta che per sminuirne una si fa riferimento alla sfera della sessualità sinonimo di moralità o di presunta mancanza della stessa, quando si usa il sesso quale strumento di forza o minaccia, oppure quando le differenti conformazioni fisiche fra uomo e donna diventano l’ausilio per affermare una presunta superiorità dell’uomo. Ed è di questo che si parla in questi giorni nello stabilimento FCA di S. Nicola di Melfi. Partendo dalla legittima richiesta delle lavoratrici, di avere una divisa che consenta loro di lavorare in piena serenità anche nei giorni del ciclo mestruale, si è cavalcata l’onda della polemica e tra proposte imbarazzanti e soluzioni inadeguate si è lasciato che l’argomento perdesse di legittimità diventando oggetto di diatribe poco edificanti. Una divisa di colore chiaro, infatti, può diventare motivo di imbarazzo per una lavoratrice che durante il regolare turno di lavoro sia nella condizione mensile di dover affrontare un processo fisiologico, assolutamente naturale, che si sperava non fosse più considerato come un momento di impurità del corpo femminile come ai tempi della redazione della Bibbia. Qualche mese fa, la maratoneta Kiran Gandhi Al motto di “Esistono, e le donne devono affrontarle ogni mese” aveva deciso in occasione della Maratona di Londra, pur avendo le mestruazioni, di correre l’intera gara senza assorbente con l’idea di combattere quei pregiudizi legati al ciclo mestruale che riteneva fossero ancora molto diffusi nel suo paese di origine ossia l’India. Noi occidentali, forti della nostra presunta superiorità culturale, avremmo voluto poter dire a Kiran che da noi il ciclo mestruale non è più un tabù, e non è l’argomento di scherni o battutine di spirito né l’argomento di polemiche che vogliono dipingere le donne come esseri dalle scarse pretese oltre che dalle necessità esclusivamente ferine. E invece per l’ennesima volta siamo costrette ad assistere allo spettacolo di chi vuole trasformare una richiesta pratica e non pretenziosa, e lo si ripete assolutamente legittima, nello strumento per innescare una campagna di delegittimazione delle nostre intelligenze, utilizzando le nostre necessità fisiche quale pretestuosa dimostrazione di quell’inadeguatezza atavica a qualsiasi attività che si discosti dal ruolo preordinato di accondiscendenti angeli del focolare. Le lotte fatte dalle nostre madri per affermare che era possibile uscire da questo stereotipo ed entrare nel mondo del lavoro ed ottenere gli stessi risultati di un uomo se non risultati migliori, vengono vanificate da chi affronta le nostre esigenze con la superficialità di un risolino. Per questo chiediamo che il nostro corpo non sposti l’attenzione, che si parli dei nostri meriti, se ne abbiamo, e che il nostro essere donne non sia né un pregiudizio né un vantaggio ma solo il genere che ci contraddistingue. Per questo chiediamo che si porti rispetto alle esigenze del nostro corpo, non più demoniaco strumento di perdizione o zavorra da sopportare nostro malgrado. Tempo fa Oriana Fallaci scriveva in uno dei suoi libri più famosi, “Lettera ad un bambino mai nato”: “Il cuore e il cervello non hanno sesso. Nemmeno il comportamento”, ci rammarica dover aggiungere la grettezza a volte si.
Roberta Laviano, segreteria regionale Uilm Basilicata