Se l’Eni è corrotta, lo Stato non stia a guardare

26 giugno 2015 | 17:49
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Se l’Eni è corrotta, lo Stato non stia a guardare

È iniziato al Senato, commissioni congiunte Giustizia e Industria, l’iter per l’esame della proposta del Movimento 5 Stelle, prima firma Vito Petrocelli, per l’istituzione di una Commissione d’inchiesta sull’operato dell’Eni. I relatori designati sono, per la Commissione giustizia, l’ex sindaco di Milano, Gabriele Albertini, e per la Decima, il senatore pugliese del Pd, Salvatore Tomaselli. La società energetica del “cane a sei zampe” è la più grande azienda italiana ed è una delle più importanti società chimico-petrolifere del mondo. È soggetta alla “golden share” del Ministero del Tesoro, che è un istituto giuridico che dà la misura di quanto sia importante per l’Italia e per la sua immagine nazionale e internazionale, il comportamento che l’Eni deve tenere sui mercati del mondo, dato che il tesoro, e dunque il governo italiano, si riservano di “condizionare” le azioni del colosso industriale nei casi in cui ci siano situazioni nelle quali sono a rischio gli interessi della nazione. È su questo punto essenziale che si basa l’impianto “politico” della richiesta e la necessità che si costituisca una condivisione trasversale tra i partiti presenti in Parlamento, al fine di rendere trasparente l’operato dell’Eni a garanzia che il buon nome del Paese non ne sia stato o non ne venga compromesso. Più di qualche condanna è già stata comminata, infatti, a dirigenti dell’Eni o a dirigenti di società satelliti, le ultime per disastro ambientale a carico proprio dell’ex amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni. Troppe sono le accuse di corruzioni anche e soprattutto internazionali, troppi i sospetti di falsificazione di certificazioni navali e troppi gli incidenti sulle piattaforme del gruppo nei mari di mezzo mondo. Tra gli ultimi casi abbiamo un procedimento penale per un’ipotesi di corruzione internazionale in relazione alle attività Eni in Kazakhistan, dentro un filone di indagini riferite ad attività condotte da Eni in Iraq; una presunta tangente di circa 198 milioni di dollari, che sarebbe stata versata dalla Saipem al ministro dell’energia algerino nel 2010, per ottenere sette grandi appalti petroliferi del valore di oltre 8 miliardi di euro; un’indagine per corruzione internazionale che coinvolge l’attuale amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi, il suo predecessore e altri due manager, per un pagamento di 1,09 miliardi di dollari al governo nigeriano, per ottenere la concessione decennale del campo di esplorazione petrolifera, Opl 245, al largo della Nigeria. Le ragioni della nostra richiesta di istituire una Commissione parlamentare d’inchiesta stanno in questo quadro desolante e disarmante per un’azienda che, più di ogni altra azienda italiana, deve fugare ogni possibile dubbio sul suo operato. E non c’è nulla di più democratico che sia lo stesso Parlamento italiano a verificare se l’Eni abbia violato codici, norme e diritti. Sia internazionali che nazionali. La Commissione d’inchiesta, infatti, dovrà valutare anche questioni puramente nazionali: dal fornire chiarezza sulle tecniche e sulle sostanze chimiche usate per le estrazioni, al chiarire se è vero o meno che in Basilicata, il cosiddetto Texas d’Italia, abbia costituito fondi neri mentendo sulle reali attività estrattive in cinque pozzi della Concessione Cugno le Macine. E, soprattutto, e se è vero che negli anni ’90 abbia o meno sperimentato il fracking, tecnica di perforazione illegale e molto invasiva, che potrebbe aver inquinato un lago della Basilicata le cui acque danno da bere a milioni di persone tra la Puglia e la Basilicata, irrigano milioni di ettari e dissetano migliaia di capi di bestiame. Motivo di una nostra recente denuncia alla Commissione europea (è stata presentata a settembre dell’anno scorso) per l’Ambiente, che ha aperto un “Pilot” per chiedere documentazioni ulteriori allo Stato e alla Regione Basilicata, con buona pace dell’Eni stessa e del governatore Marcello Pittella. I quali, come dimostra un’inchiesta del programma “La Gabbia” su LaSette, fatta ad aprile scorso, si sono subito affrettati a dichiarare che non si fanno operazioni di fracking nelle “attuali” attività di estrazione in Basilicata. L’Eni – e anche Pittella – devono, invece, dire chi, negli anni ’90, ha autorizzato una pratica invasiva e illegale in un’area di così vitale importanza per la catena alimentare umana, visto che una rivista scientifica di settore dell’epoca pubblicò gli esiti di tale pratica invasiva, sperimentata in Italia prima di usarla nel resto del mondo.

Vito Petrocelli – M5S Senato della Repubblica