«La Lucania è una terra meravigliosa, di boschi e di luce, il posto giusto per La lucina»

14 giugno 2015 | 18:32
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«La Lucania è una terra meravigliosa, di boschi e di luce, il posto giusto per La lucina»

L’incontro con Jonny Costantino, filmmaker, scrittore e produttore indipendente, classe 1976, è stato imprevedibile e fortuito, fra quelli che non ti aspetti e che lasciano il segno. Lo zaino degli attrezzi e il passo lieve, il sorriso bonario disegnato sulla carnagione scura; Jonny colpisce per la sua umiltà e per la timida apparenza e coinvolge con una raffinata personalità, eclettica.

Vive  a Bologna,  è attualmente direttore della rivista Rifrazioni. Dal cinema all’oltre. Insieme a Fabio Badolato fonda nel 2005 la BaCo Productions attraverso cui il duo realizza i film, si ricordano Jazz Confusion (un documentario del 2006), Mimesi (2007), Storie dell’occhio (2008), Le Corbousier in Calabria (2009), Beira Mar (2010), Il firmamento (2012) e Sbundo (il primo lungometraggio narrativo, 2013).

Il regista, originario di Catanzaro, sta lavorando al suo nuovo e impegnativo progetto cinematografico, la trasposizione di La lucina (romanzo edito da Mondadori), di Antonio Moresco il quale sarà anche l’attore protagonista del film. Costantino e Badolato stanno svolgendo infatti dei sopralluoghi in Basilicata, in particolare in Val d’Agri, nel territorio di Sant’Arcangelo e di Castronuovo Sant’Andrea, perché il film sarà probabilmente girato in Basilicata.

Il lavoro di Costantino si muove entro i confini di un cinema di ricerca, per dirla con Adriano Piccardi, «intorno e dentro ai gangli vitali del testo audiovisivo. Il termine film – spiega il direttore di Cineforum –  potrebbe indurre chi legge a pensare a prodotti convenzionalmente definiti in questo modo in quanto corrispondenti a caratteristiche, ingredienti, finalità che li inseriscono in un circuito di aspettative e di desideri precostituiti. Ciò che fanno Badolato e Costantino è spingersi invece in un territorio differente, laterale, trasversale: anche il termine documentario, che essi stessi utilizzano – aggiunge Piccardi – per descrivere sinteticamente la loro attività, risulta stretto nel dar conto dell’effettivo approccio e dei risultati».

Racconta com’è nata la tua passione per il cinema e quali sono stati i tuoi inizi…

Da adolescente. Ho scoperto il cinema insieme alla letteratura e all’eros. Forse per questo le tre dimensioni sono così intrecciate nel mio fare. E forse per questo rimango in parte, direi la parte migliore, un adolescente. L’adolescenza è slancio vitale, scoperta, metamorfosi. Malgrado tutto. Malgrado il precisarsi di un sentimento dell’esistenza come ferita aperta. A scrivere, a scrivere di cinema, avrei iniziato però una decina di anni dopo, dopo una laurea in Giurisprudenza, misurandomi con una tesi in Criminologia. Scrivo di cinema amorosamente e non si può scrivere amorosamente di qualcosa senza sentire il bisogno di misurarsi e fondersi con l’oggetto del desiderio. Almeno non io. È stato fisiologico mettermi dietro all’obiettivo. Con l’idea di realizzare un documentario su un festival di jazz, io e Fabio Badolato abbiamo dato il via alla nostra avventura cinematografica. Che poi il festival sia sparito dal documentario è un altro discorso, che anticipa ciò che è stato definito, con riferimento al nostro lavoro, anti-documentario.

così dieci anni fa, con Jazz Confusion, è nata la BaCo Productions. Cosa vuol dire essere un cineasta indipendente in Italia? Questa condizione ripaga?

L’Italia è il massimo: è un paese così ostile a un’idea di creatività sganciata da parametri televisivi e logiche commerciali a dir poco castranti, un paese con un’industria cinematografica così paludosa e scoraggiante, che farsi le ossa qui è un’esperienza fortificante per qualsiasi artista che non accetti compromessi, per un artista che sia disposto ad andare fino in fondo. Quindi la risposta è sì, essere un cineasta indipendente in Italia è una condizione che ripaga: ciò che non ti stronca ti potenzia, non ti consente di rammollirti. O meglio: questa è l’esperienza che io e Fabio abbiamo maturato sul campo. Ma sarei monocromo e ingiusto se non dicessi che l’Italia è al contempo un paese di eccezioni ed eccellenze e che, anche nelle istituzioni, si può avere la fortuna d’imbattersi in figure illuminate. Il cinema è un gioco di squadra e senza compagni di valore, è inutile, non lo fai. E comunque, volendo fare autocritica, ritengo che il nostro cinema sia così inaddomesticabile nello spirito e divergente negli esiti che incontreremmo difficoltà in qualsiasi sistema.

Sì, perché, infatti, tu e Fabio Badolato condividete un “sentimento avventuroso del fare cinema”…Il vostro è definito “cinema dell’oltre” e segue, utilizzando spesso un registro stilistico provocatorio, un preciso lavoro di ricerca…

Durante un film accade di tutto. Si aprono spiragli e si scatenano forze che non potevi prevedere al momento della scrittura. Che fai? Puoi tirare dritto facendo finta di niente per portarti a casa l’opera che hai immaginato un paio di anni prima, e allora avrai fatto un film organico, ben costruito, di quelli che scorrono via senza intoppi: un film morto. Oppure puoi guardare attraverso lo spiraglio, captare la forza. È un’attitudine pericolosa. Uno dei pericoli è che il film vada in direzioni diverse da quelle di partenza, che ti si rompa in mano. I nostri ultimi due film, Il firmamento e Sbundo, a un certo punto si sono rotti. È stato un naufragio in piena regola, con ammutinamenti e perdite. In certi momenti ci vuole molta flessibilità e prontezza di riflessi. Non bisogna perdere di vista il senso profondo del film ma, al tempo stesso, accogliere quanto di nuovo e inaspettato emerge durante le riprese. Gli imprevisti possono ingenerare perfino un ripensamento dell’estetica del film. È questa la nostra disposizione d’animo sul set.

Abbiamo girato, e lo faremo ancora, in situazioni estreme, in vere e proprie polveriere. Ci assumiamo i nostri rischi e fisicamente non ci risparmiamo. Ma è importante capire che non si tratta, nel nostro caso, di un partito preso del rischio fine a se stesso, bensì di qualcosa che riguarda l’energia e la verità della singola ripresa. Il tuo cuore che batte all’impazzata si trasfonderà nell’immagine che stai realizzando, la darà un ritmo. Non si bluffa. Se hai occhio, la riconosci subito una scena fasulla. Il nostro cinema è il frutto di una lotta senza esclusione di colpi. La lotta tra la nostra visione del mondo e il mondo concreto (le creature, i luoghi, le dinamiche) che di volta in volta filmiamo. Una lotta sensoriale, sensuale, fusionale. Una lotta durante la quale ciò che pensavamo di sapere sul cinema viene ribaltato e sorpassato dalla vita che abbiamo attizzato. Una lotta che, nei momenti più acuti, è rivelazione. E questo è solo l’inizio…

In Le Corbusier in Calabria è evidente poi il rapporto affettivo con il territorio filmato. È probabile che il tuo prossimo film lo girerai nella mia terra. C’è un qualche legame anche con la Basilicata? Come vi appare?

La Basilicata, che stiamo esplorando e scoprendo, ci appare una terra meravigliosa. Il paesaggio è ancora integro, non violato né deturpato dai suoi abitanti, come invece è accaduto sulle coste calabresi. Nel raggio di un chilometro hai la Toscana e la Death Valley, sottobosco cattivo e argilla crepata. La Lucania è terra di boschi (lucus) e di luce (lux): potrebbe essere il posto giusto per La lucina. Ci sono buone possibilità.

Sempre in Le Corbusier la macchina da presa indugia spesso su luoghi isolati e apparentemente abbandonati a se stessi, veri leitmotivs nei tuoi film. Anche il nuovo progetto, La lucina, vede come protagonista un uomo il quale vive in totale solitudine in un vecchio borgo abbandonato e deserto. Si tratta di una precisa scelta stilistica?

Parlerei piuttosto di tensione poetica. Le figure al limite, ai ferri corti con la vita, sono quelle che prediligiamo. Sbundo è il viaggio al termine della notte di un uomo che ha perso tutto. Nella Lucina ci muoveremo sul confine tra la vita e la morte.

Anche in Beira Mar si avverte questa “tensione poetica”, nel film descrivi quasi ossessivamente, e ricorrendo a lunghi piani sequenza, la quotidianità di chi vive della raccolta delle elemosine, in condizioni di degrado e di estrema povertà, riesci però a conferire un taglio intimamente umanista e sincero…

Se è vero quello che dici, è perché le epifanie provocate sono autentiche, perché l’emozione che raggiunge lo spettatore è stata provata in camera al momento delle riprese. L’emozione, lo stupore, il brivido di provocare una situazione che, mentre la filmi, non sai dove può condurre. Beira Mar è un piccolo film a corpo libero.

Tornando al presente, sai di aver fatto, ancora una volta, una scelta rischiosa…“Sono venuto qui per sparire, in questo borgo abbandonato e deserto di cui sono l’unico abitante” è  l’incisivo incipit di uno degli ultimilibri di Moresco, La lucina, appunto, che hai deciso di adattare al cinema, perché? 

La lucinaè un romanzo splendido dal grande potenziale cinematografico. Sarà un film sul bambino morto che ci portiamo dentro e sul fatto che, per salvare chi amiamo, può essere necessario attraversare la morte. E poi c’è Antonio Moresco, che ho scoperto da lettore, rimanendone sconvolto. Basterebbero I canti del Caos a collocarlo sul podio dei maggiori scrittori viventi. Scomparsi Agota Kristof e James Purdy, oggi mi sentirei di affiancargli solo il Cormac McCarthy di Suttree. C’è dunque, a monte, un profondo amore per l’artista da cui sono sprigionate un’amicizia e una sintonia poetica altrettanto profonde. Nel 2012 da una pièce di Antonio abbiamo tratto Il firmamento. Questo film breve ci ha fatto venire la voglia di realizzare un lungometraggio e, con La lucina ancora in bozze, assieme all’autore abbiamo iniziato a lavorare alla sceneggiatura. Antonio sarà anche il protagonista del film e ci tengo a dire che non avremmo filmato nessun altro in questo ruolo. Sono anni che io e Fabio ci studiamo fotograficamente il nostro attore e – come ha detto un caro amico e grande pittore, Nicola Samorì, anche lui coinvolto nella Lucina – «Moresco non sbaglia uno sguardo».

D’altra parte, la letteratura è fra le arti che hanno, fin dagli inizi, contribuito a dare corpo al cinema e ai film. Peraltro, tu sei uno scrittore. Come concepisci il rapporto fra cinema e scrittura?

Scrivendo mi squarto e m’illimito. Scrivo con tutti gli apparati. Scrivere è uno sforzo immane. Scrivere è una brutta bestia, ti fa a pezzi e le soddisfazioni sono momentanee, effimere, se cerchi l’impossibile. Credo nell’ispirazione e ho delle visioni che riverso su carta di slancio, ma non finisce lì: solo torturando la parola riesco a farle dire la verità. È inevitabile che il bottino di questa traversata tenebrosa e luminosa lo riversi nel mio lavoro con Fabio, confrontandolo e sfregandolo con i suoi bottini. I nostri progetti nascono come scintille. L’incendio che divampa e le sue ceneri nutrono la mia scrittura a venire. Direi allora che, nel mio caso, il rapporto tra scrittura e cinema è di osmosi. Due partite, due linguaggi, due mondi diversi, ognuno con le sue regole e la sua disciplina, ma in forte compenetrazione.

Quando scrivi sei solo, quando fai un film sei costretto a non esserlo. Se la scrittura è il dentro, il cinema è il fuori.  A volte penso che se dovessi assecondare la mia natura mi chiuderei in uno sgabuzzino e non farei altro che scrivere, magari con qualcuno che, senza disturbare, si ricorda di portarmi da bere e da mangiare, come sognava Kafka. Per fortuna c’è il cinema. Ma anche nel cinema BaCo arriva il momento della tortura: il montaggio. Non ci fermiamo se non quando tutto ciò di cui dubitiamo è scomparso dallatimeline e l’insieme, con le sue contrazioni e sue dilatazioni, ci appare intoccabile. Io e Fabio siamo montatori spietati che non consentirebbero mai che qualcun altro “componesse” il film che hanno scritto, diretto e prodotto. Se i nostriset sono ring, il montaggio è un processo di riscrittura a quattro mani lungo e laborioso, che si svolge con una sintonia più unica che rara. Un miracolo. Non ci crederei se non lo vivessi sulla mia pelle.

Intervista di Valeria Gennaro