Pozzi di reiniezione e abbandonati possono rappresentare calamità naturale

26 maggio 2015 | 19:12
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Pozzi di reiniezione e abbandonati possono rappresentare calamità naturale

Riesplode il problema dello smaltimento delle acque di produzione, lo scarto più impattante dell’attività petrolifera, perchè tossico, radioattivo e di grande volume. Questa volta accade in Molise, dove la stampa parla di un pozzo di reiniezione (oggi abbandonato) in cui sono state immesse acque petrolifere provenienti dalla Basilicata, e in particolare da Melfi dove la Montedison ha gestito otto pozzi. Il 25 maggio 2015 un servizio del Tg2 ha diffuso l’allarme per la presenza di una forte radioattività da raggi gamma (molto pericolosi per la salute) in prossimità del pozzo di reiniezione petrolifera Cercemaggiore 1 del cantiere estrattivo Capoiaccio, in un’area a circa 3 km da Cercemaggiore. Si tratta di un pozzo profondo 3280 m, dove sin dagli anni ’60 la Montedison ha fatto attività estrattiva, e che poi è stato dismesso e dal 1988 utilizzato per la reiniezione delle acque di scarto petrolifero: il tutto sembra senza controlli. C’è però anche il sospetto che in passato siano state sversate scorie nucleari. Nel 2014 l’Ispra ha consigliato di controllare il grado di radioattività nei fiumi e nelle falde acquifere circostanti, e l’ufficio legale dell’Idv ha depositato un esposto alla Procura della Repubblica di Campobasso nei confronti di ignoti ravvisando i reati di inquinamento e di disastro ambientale. Questo episodio acuisce l’attenzione sul problema dell’impatto ambientale dello smaltimento delle acque di produzione petrolifera, che impone non solo il rispetto delle leggi esistenti, ma anche controlli severi. Le acque di produzione petrolifera, infatti, possono aver un forte impatto su suolo, sottosuolo, acque superficiali e sotterranee, a causa della loro composizione e del loro grande volume. Si tratta di acque generalmente radioattive, che possono contenere idrocarburi e composti organici (es. fenoli), gas, sali disciolti (cloruri, solfati, solfuri, bicarbonati, di sodio, calcio, magnesio, ecc.), solidi, metalli e additivi chimici, come antiossidanti per inibire la corrosione, antincrostanti, disemulsionanti, coagulanti e flocculanti, solventi, ecc. I suoli nelle immediate vicinanze dei siti petroliferi possono diventare insolitamente radioattivi per sversamenti e perdite di acque di produzione, così come anche le falde acquifere. Una indagine di ProPublica negli Usa ha documentato che i pozzi di reiniezione sono stati spesso soggetti a perdite di acque di scarto petrolifero, che si sono mescolate alle acque di falda e hanno poi raggiunto la superficie: dal 2007 al 2010 negli Usa più di 7000 pozzi hanno registrato perdite di acque di scarto a causa di difetti di impermeabilizzazione dei pozzi, che hanno spesso operato violando le regole di sicurezza. Per giunta, i reflui petroliferi nel sottosuolo possono migrare in maniera imprevedibile, anche attraverso pozzi petroliferi abbandonati. Questi ultimi possono presentare perdite di petrolio, gas e/o acque di scarto per mancata chiusura, per chiusure improprie, per mancati controlli periodici o per altro. Anche nei pozzi ben sigillati il cemento dopo anni può fratturarsi e l’incamiciatura metallica può arrugginirsi; le perdite sotterranee possono rimanere ignote per anni. Per maggiori informazioni sull’argomento si veda il libro “L’Impatto Ambientale del Petrolio” di M. V. Civita e A. Colella, www.galaadedizioni.com. Il caso di Cercemaggiore ripropone dunque il problema dello smaltimento degli scarti petroliferi relativamente all’impatto sulla salute umana e del territorio, e il problema della carenza di controlli. I pozzi di reiniezione e i pozzi abbandonati possono rappresentare una calamità naturale di cui pochi si preoccupano, forse per mancanza di conoscenza o di evidenze macroscopiche. Queste attività di smaltimento, per i loro potenziali impatti, necessitano di controlli severi, che dovrebbero essere incrociati e realizzati anche da enti terzi. E’ auspicabile e necessario, inoltre, che anche la comunità scientifica ponga maggiore attenzione a questo tipo di problemi, in considerazione dell’incremento delle attività petrolifere nel nostro Paese.

Prof. Albina Colella Ordinario di Geologia Università della Basilicata