Romaniello, Sel e la Sinistra radicale italiana ‘allergica’ all’ambiente

10 dicembre 2014 | 12:16
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Romaniello, Sel e la Sinistra radicale italiana ‘allergica’ all’ambiente

Il consigliere regionale Giannino Romaniello, dopo il voto favorevole alla risoluzione voluta dalla maggioranza Pd, lascia Sel e spiega le cause della rottura. Ma a guardar bene, la causa del gesto, 

che si riallaccia simbolicamente a petrolio e ambiente, è proprio la buccia di banana su cui i vertici di una certa sinistra radicale italiana sono inciampati negli ultimi tempi. Mentre i suoi stessi elettori (Sel) erano fuori dal Palazzo e chiedevano che il Governo regionale lucano impugnasse l’art38 dello Sblocca Italia, che decreta il via libera dello Stato a nuove trivelle, il consigliere Romaniello, nell’aula del Consiglio regionale, giovedi scorso, votava la risoluzione della maggioranza (Pd), che rinvia di un mese l’impugnativa dell’articolo 38, subordinandola ad una trattativa col Governo Renzi per modificare quel decreto attraverso la legge di Stabilità. Frattura consumata. Qualche giorno dopo Romaniello lasciava Sel.

Ieri, in conferenza stampa, ne ha motivato la scelta parlando di una frattura insanabile col partito. Sia a livello regionale che nazionale. Si dice contro “il partito del leader fatto di gruppi contrapposti”. Critiche sia a Vendola sia alla gestione lucana di Sel. Cosa cerchi Romaniello è difficile da dire. Si può ipotizzare che si stia preparando per un imminente Assessorato nella Giunta regionale Pittella, vicina al rimpasto. Magari assessore a quel ‘Welfare,’ che verrebbe alimentato proprio dai proventi del petrolio.

Ma andando oltre i fatti lucani, c’è un certo disorientamento in quella che un tempo si chiamava sinistra radicale rispetto alle questioni ambientali che stanno intossicando il nostro Paese. Come non ricordare la telefonata del leader di Sel (Vendola) che intercettato con Archinà (ex responsabile delle relazioni esterne dell’Ilva) lasciava intendere che salvare l’Ilva era “il primo” pensiero (telefonata resa pubblica il 13 novembre 2013 dal Fatto quotidiano). Si poteva anche ridacchiare sui “tumori”, sulla peste che ha colpito il quartiere Tamburi di Taranto. In secondo piano quindi le malattie umane, gli avvelenamenti degli animali e i valori di emissioni violati per anni. “Ambiente svenduto” si chiama l’inchiesta in corso a Taranto. “Disastro ambientale”, uno dei reati contestati. Che vuoi che sia. Basta che si salvi l’Ilva.

Ma ad alimentare dubbi, negli ultimi giorni, anche uno scivolone del leader nazionale della Fiom, Maurizio Landini, che in un’intervista a Repubblica.it ha detto che in Italia devono proseguire sia le estrazioni petrolifere che la raffinazione del greggio. “Perché farlo raffinare all’estero?”. Landini, sempre vicino alle lotte operaie, evidentemente non conosce la questione delle estrazioni in Basilicata, il far west degli ultimi 15 anni con controlli parziali e fasulli. Non è mai stato a Viggiano e Pisticci Scalo. E non è mai stato a Taranto, dove il progetto Tempa Rossa prevede l’ampliamento della Raffineria dell’Eni, in un sito a forte rischio di ‘incidente rilevante’. “Ma perché farlo raffinare all’estero?”.

Per chiudere, la cultura operaista di molta sinistra radicale, sembra ferma ai tempi dell’ex Italsider. Chiusa la fabbrica, si piangono i disastri e le bonifiche fantasma a scapito del diritto alla vita e alla salute. Si può essere dalla parte degli operai dell’Ilva che non vogliono perdere il posto di lavoro e contemporaneamente non vedere il danno che quel lavoro può fare sia ai lavoratori, ma soprattutto a chi abita a due passi da lì? Gli abitanti delle aree sottoposte a fumi chimici e industriali non sono cittadini di serie b. Pagano le tasse. E sono vittime innocenti. Se poi il danno di quei veleni entra nella catena alimentare, ecco che il disastro ambientale si allarga. E si piange per intere generazioni. Moltiplicato per le decine di ‘industrie killer’ presenti, conviene davvero difendere ad oltranza questo tipo di lavoro?