Il petrolio lucano tra rifiuti speciali, affari, management e cultura

27 ottobre 2014 | 17:40
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Il petrolio lucano tra rifiuti speciali, affari, management e cultura

C’era una volta una Regione che emanò una legge e sbandierò ai quattro venti l’uso sostenibile delle risorse, la tutela delle componenti specifiche dell’ambiente regionale, lo sviluppo e utilizzo di fonti rinnovabili (inclusa la microgenerazione, ndr), l’efficienza energetica, il recupero e riuso dei siti inquinati. 

Persino la cultura si voleva sostenibile, supportando e promuovendo comportamenti attenti alle problematiche ambientali e un’efficace gestione dell’ecosistema. Da allora anche per le multinazionali petrolifere che la storia giudiziaria ci ha abituati spesso a distributori di tangenti e inquinamento è tutto sostenibile, e l’odierna scusa di sbloccare l’Italia permette d’insistere sul paradigma petrolifero, un vecchio ricatto che vede la Basilicata in prima fila e soprattutto, un contesto territoriale sottosviluppato, al collasso demografico, occupazionale, e di salute pubblica nonostante quattro decenni di estrazioni alle spalle che avrebbero dovuto arricchirlo. 

Il conto provvisorio della sostenibilità. Prima di affrontare il petrolio lucano, è bene ricordare che nel Bilancio di sostenibilità 2009 Eni, si affermò che il settore petrolchimico stava riducendo la produzione di rifiuti. Nel Kashagan l’Agip Kco studiava per Eni la “cutting re-injection”, tecnica che avrebbe consentito la “drastica riduzione dei rifiuti trasportati e messi a discarica”. Lì già nel 2002 aveva rinnovato di altri due anni il contratto di 120milioni (mln, ndr) di dollari con la Halliburton per occuparsi dei servizi di perforazione, dalla costruzione dei pozzi al trattamento rifiuti. “Se state pensando a un modo sicuro ed efficiente di smaltire qualunque rifiuto di perforazione – scrive Halliburton che collabora con Eni pure in Val D’Agri – facile da istallare e far funzionare, che massimizza le perforazioni rimuovendo le ostruzioni ed è stato testato in tutto il mondo in condizioni estreme, guardate le prestazioni di FullCircle Reinjection. Vi piacerà quello che vedrete”. Su quello che usano per liberare le ostruzioni e a quale pressione s’apre un mondo sugli effetti collaterali a livello sismico e di contaminazione. Comunque vedremmo fluidi di perforazione raccolti e trasferiti con autobotti in una unità in cui viene aggiunto terreno per ottenere una specifica consistenza, e da lì i fanghi pompati dove verrebbero condizionati e iniettati direttamente in pozzi di reiniezione per lo smaltimento finale. Eni affermava di spendere, in giro per il mondo circa 600mln di euro l’anno nel settore ambientale per assicurare il trattamento dei rifiuti e la bonifica dei siti. Nel 2009 le spese sono state di 1.324mln di euro, 629mln dei quali per la tutela del suolo (bonifiche comprese, ndr), aria, e rifiuti. Sempre stando al Bilancio di sostenibilità, pare che dal 2007 al 2009 Eni ha rendicontato per il mondo una quantità stabile di rifiuti da attività produttive (1,7mln di tonnellate l’anno in media, ndr), e un crescente aumento di quelli da bonifica (da 7mln di tonnellate a 10, ndr), un rifiuto quest’ultimo, come si specifica, che rappresenta l’86% dei rifiuti complessivi e “deriva per la quasi totalità da attività di trattamento delle acque di falda”.

Il paradigma lucano. Sostenibilità o meno, in Basilicata sono certificati gli impatti del petrolio, come l’inesistenza dell’anagrafe dei siti contaminati, e manca un piano di tutela delle acque, qualcosa cioè, che permetta di capire l’interazione tra le decine di buchi fatti e che si intendono fare nella terra, e la risorsa idrica. Nel frattempo domina tra i politici, che s’apprestano a gestire anche i soldi della Cultura a Matera, l’idea che le fonti fossili vadano sfruttate guadagnando più soldi. Ma bisognerebbe chiedersi che tipo di cultura è quella di imprese e istituzioni che attaccano chi denuncia gestioni del territorio connesse a un guadagno illecito sul suo depauperamento. Malgrado ciò in Basilicata l’Eni, che le risorse le sfrutta per bene, espone nei report sulle attività estrattive i suoi indicatori di sostenibilità. Come ogni industria ha bisogno d’acqua in fase di prelievo e rilascio. In un pianeta con serie difficoltà d’approvvigionamento di acqua potabile e idroconflitti, tra 2009 e 2013 per tirar sù petrolio in Basilicata Eni ha prelevato 1.968.280 metri cubi d’acqua dolce, e reiniettati 3.907.196. Nel quinquennio 2009/2013 si sono prodotte 847.889 tonnellate (t, ndr) di “rifiuti da attività produttive”, 111.185t pericolosi. Solo nel report 2013, e indicate nel triennio 2011/2013, sono inserite, tra i rifiuti da attività produttive, le acque di produzione del Centro Oli Val d’Agri (Cova, ndr) inviate a smaltimento, che ammontano a 568.155t, i tre quarti dei rifiuti del quinquennio. Gli effluenti prodotti durante l’esercizio del Cova, scrive Sviluppo Basilicata spa (cioè la Regione, ndr) in uno studio di fattibilità portato avanti dal 2009 al 2012, finanziato con fondi europei e basato su dati Eni, sono le “acque di processo reiniettate in unità geologiche profonde dopo trattamento nell’apposito impianto” (ricordavamo che si parla di circa quattro milioni di metri cubi in cinque anni, ndr), e quelle semioleose con recapito finale, dopo trattamento di recupero olio, nella rete fognaria consortile. Infine 67mila tonnellate di rifiuti da attività di bonifica. Mancano a tale modello sostenibile gli effetti sulla salute pubblica degli inquinanti emessi nelle matrici ambientali, e i relativi costi economici (abbiamo raccontato questo scenario, ndr). Perciò quando si parla d’uso sostenibile delle risorse, politica e impresa, attori principali del risanamento o della distruzione delle stesse, che intendono?

Flussi e riflussi storici. Per rispondere dobbiamo confrontare ciò che in Basilicata l’industria estrattiva si prende e ciò che lascia. Nel 2006 stando al Ministero dello sviluppo economico (Unimg, ndr) s’estraevano circa 4,5mln di tonnellate di petrolio. Durante il boom estrattivo solo l’Eni di Potenza e Matera ha lasciato in Val Basento, per essere smaltite, 52.364,280t di soluzioni acquose di scarto non pericolose (Cer 161002, ndr), come riportato nella dichiarazione ambientale di TecnoparcoValbasento spa. Anche dalla Italfluid Geoenergy srl di Potenza, che per Eni gestiva i pozzi, arrivavano a Tecnoparco quell’anno 1.919,980t dello stesso scarto. E dello stesso tipo ne sono arrivate dal Gruppo Castellano 43,340t via Semataf e 52,920t via Castellano Costruzioni srl. Ci sono poi 66,840t dalla Criscuolo Eco-Petrol Service srl, 66,960t dalla Ecosud srl del Gruppo Iula, e 101,160t dalla Comaco srl (quella che ha fatto il piano per la modifica dell’impianto di trattamento effluenti liquidi presso il centro olio di Viggiano?). Di soluzioni acquose di scarto pericolose (Cer 161001, ndr) a Tecnoparco dall’Eni arrivavano 4.698,460t e dalla Criscuolo 11,760t. Italfluid Geoenergy portava anche 294,180t di concentrati acquosi contenenti sostanze pericolose (Cer 161003, ndr). A queste quantità vanno aggiunte 3.370,660t dirifiuti non pericolosi prodotti dalle operazioni di bonifica di terreni e risanamento delle acque di falda consegnate dall’Eni. In totale nel 2006 Eni porta a Tecnoparco 62.936,54t di rifiuti da attività produttive, di cui 4.950,4t pericolosi. Nel 2008 invece, stando a quanto scrive Sviluppo Basilicata il Cova ha invertito la produzione. I pericolosi sono stati infatti circa 21.000t, poco più di 5.000t i non pericolosi. L’Unmig dice che quell’anno s’estraevano in Basilicata 3mln di tonnellate di petrolio. Il 2008, se osserviamo il flusso estrattivo tra 1980 e 2013 (fig.1), rappresenta il primo anno di decrescita dopo un boom partito nel 2002 in cui furono più che duplicate le tonnellate estratte (da 1mln si passò a 2.638.114t, ndr). Quello che qualcuno definì un periodo di “aumento drammatico” portò tra 2006 e 2007 al picco di circa 4,5mln di tonnellate. Tra 2008 e 2010 si raggiunse invece un picco al ribasso ma i rifiuti prodotti dal Cova iniziarono a raddoppiare di anno in anno (da 26mila del 2008 a 103mila tonnellate nel 2010,ndr). A fine 2013, quando si torna a oltre 4mln di tonnellate, Eni produce ben 331.142t di rifiuti, 282.771t delle quali classificate come acque di produzione del Cova inviate a smaltimento. In questo gioco di flussi e riflussi com’è possibile pur restando negli stessi quantitativi estratti se non anche minori, che Eni dica di diminuire da prima del 2009 i rifiuti mentre il Cova produca quantità dieci volte maggiori in poco tempo?

Questioni di percentuali. Nei costi della filiera petrolifera sono centrali intermediari e luoghi in cui smaltire e stando all’Autorizzazione d’impatto ambientale (Aia, ndr) del Cova del 2011 a trasportare le acque di processo dell’attività estrattiva (soluzione acquose di scarto pericolose e non, ndr) ci pensano società contrattiste come Castellano Costruzioni Generali srl e Semataf srl (Gruppo Castellano, ndr), Iula Bernardino srl (Gruppo Iula, ndr), Criscuolo Eco-Petrol Service srl, A.C.R. di Reggiani Albertino spa e la Garrammone Michele e Figli snc. In Basilicata l’impianto autorizzato dall’Eni a digerire i rifiuti del Cova è, come visto, Tecnoparco a Pisticci Scalo dove, un giorno sì e uno no, gli abitanti avvertono il classico odore di uova marce che emana il tossico idrogeno solforato. Nel 2008 quando c’era un picco estrattivo al ribasso, stando al rapporto rifiuti depositati dalla società valbasentana presso la Provincia di Matera, da Viggiano di rifiuti petroliferi pericolosi ne erano arrivati 10.500t (la metà del totale, ndr). Sempre Sviluppo Basilicata afferma che solo il 10% dei rifiuti petroliferi pericolosi è trasportato su gomma e trattato presso Tecnoparco, il 90% se ne va a Lamezia Terme, in Calabria, ma probabilmente nel 2008 Tecnoparco poteva prendere di più. Secondo l’Aia oltre Tecnoparco ci sono altri impianti di smaltimento come Alfarec spa di Pianoro (Bologna), R.o.b.i srl di Treviolo (Bergamo), e in Calabria due. La Iam spa di Reggio Calabria, di cui nel 2005 la parlamentare Angela Napoli aveva fatto presente ai ministeri competenti il “grave inquinamento ambientale prodotto” dal ’98 e mai risolto, e la Econet srl a Lamezia Terme, finita in cronaca nel 2001 quando il legale rappresentante veniva raggiunto da avviso di garanzia per inquinamento di aria e acqua causato dallo smaltimento di rifiuti tossici. Certo nel 2008 all’inceneritore Fenice di Melfi Econet porta 2.429t di rifiuti pericolosi parzialmente stabilizzati, quelli prodotti da impianti di trattamento dei rifiuti e impianti di trattamento di acque reflue (come lo stesso impianto Econet, il Cova, o Tecnoparco, ndr), e 6.470kg di rifiuti sanitari che devono essere raccolti e smaltiti applicando particolari precauzioni per evitare infezioni. Ad aprile 2013 intanto, mentre probabilmente è in corso un’indagine dell’antimafia per smaltimento illecito di rifiuti petroliferi che vedrebbe coinvolti Tecnoparco, il Cova, e la Castellano Costruzioni Generali, la multinazionale francese dei rifiuti e dell’energia Veolia spa, in quota col 20% (assieme a Finpar spa, Sorgenia spa, e Consorzio per lo sviluppo industriale di Matera – Asi, ndr), si defila dalla società valbasentana. Eppure Veolia teneva al settore rifiuti in Basilicata, e qualche altro affare aveva provato a farlo. Come con Basento Ambiente srl, società costituita assieme al Gruppo Iula e Michele Somma (presente in Tecnoparco e Finpar, ndr) per metter sù una discarica di rifiuti speciali e pericolosi tra i calanchi, a due passi da Tecnoparco, da una discarica per rifiuti speciali del Gruppo Iula già attenzionata per illeciti, e dal Centro oli Eni di Pisticci che stando ai dati del Registro Europeo non presenta nemmeno l’ombra d’inquinanti rilasciati ma fa registrare 55mila tonnellate di rifiuti trasferiti.

Nuove iniziative imprenditoriali. La storia di ciò che l’industria estrattiva prende e lascia è strettamente connessa alle iniziative imprenditoriali che vanno e vengono. In Tecnoparco, terminale fondamentale della filiera petrolifera, la quota Veolia dopo la dipartita viene acquisita da Finpar e Sorgenia, ridisegnando un assetto societario che vede l’Asi al 40% socio di maggioranza. Assieme all’Asi restano per un po’ col 30% a testa Finpar e Sorgenia. Poco perché guarda caso tre mesi prima che l’antimafia entrasse, a febbraio 2014, dentro Tecnoparco per l’indagine su smaltimento illecito, anche Sorgenia lascia. “In data 27 novembre 2013 – c’è scritto nella Nota integrativa al bilancio2013 di Tecnoparco – la società Sorgenia spa ha ceduto l’intera partecipazione di Tecnoparco di nominali euro 283.500, pari a numero 283.500 azioni ordinarie alla società Finpar spa. In data 26 e 27 novembre 2013 la società Finpar spa ha ceduto alla controllata Veos srl quota della propria partecipazione di nominali euro 212.625 pari a numero 212.925 azioni ordinarie”. Stando alla visura storica la Veos non risulta controllata della Finpar, ma iscritta nel registro delle imprese il 25 novembre, cioè il giorno prima che Finpar le girasse parte della sua quota in Tecnoparco, e due giorni prima che la società dei Somma acquisisse quella di Sorgenia. L’inizio dell’attività della Veos è registrato sei mesi dopo, il 12 maggio 2014, appena in tempo per approvare il 9 giugno il bilancio2013 di Tecnoparco. La Veos ha tre soci, Massimo Orlandi col 60% di capitale, Riccardo Bani e Egidio Ricciuti col 20% a testa. Orlandi e Bani ne sono gli amministratori. Il 19 luglio 2013, quattro mesi prima che Sorgenia cedesse la sua quota alla Finpar, Orlandi aveva già annunciato di lasciare l’incarico di amministratore delegato (Ad, ndr) di Sorgenia per dedicarsi a “nuove iniziative imprenditoriali”. Per altri avrebbe deciso Rodolfo De Benedetti dopo il crollo della holding che a giugno scorso vede recuperato un probabile fallimento grazie al decreto “salva Sorgenia”. Ad ogni modo, dopo Sorgenia, Orlandi figura in quattro nuove iniziative. E dovranno avere un qualche senso economico se a detta dell’ex Ad Sorgenia rappresentano il motivo del suo distacco dal Gruppo De Benedetti. Tre di esse, Geode Group srl, Seed srl, e Samandel spa, hanno sede legale allo stesso indirizzo a Monza, via Suor Maria Pelletier 4, la Veos invece, che sarebbe stata controllata dalla Finpar, a Potenza. La Geode e la Seed fanno attività di consulenza imprenditoriale, amministrativo-gestionale, e pianificazione aziendale, la Samandel servizi di progettazione di ingegneria integrata, la Veos si dedica alle holding impegnate nelle attività gestionali. Geode Group inizia la sua attività il 12 novembre 2013, e Orlandi ne è socio unico e amministratore da ottobre fino a dicembre, quando cessa dalla qualifica di socio e resta amministratore a tempo indeterminato (rinominato il 31 gennaio 2014, ndr). La Seed inizia l’attività il 6 febbraio 2014 e un mese dopo Orlandi ne è vicepresidente e consigliere fino alla revoca. Samandel e Veos iniziano lo stesso giorno, il 5 maggio 2014, e Orlandi nella prima, da febbraio, è presidente del consiglio di amministrazione (Cda, ndr) e consigliere, nella seconda socio di maggioranza, e da fine gennaio 2014 amministratore.

Il valore dei rifiuti e tutto il resto. Che i rifiuti petroliferi sono un affare lo avevamo già raccontato diverse volte. E il volume di affari di questa nuova iniziativa in cui si butta l’ex Ad Sorgenia con Veos si può raccontare solo se ci si pone domande su quanto vale trattare rifiuti. Anche dimezzando il costo di mercato del trattamento delle 883.831,583t di rifiuti (quota parte petroliferi, ndr) giunte tra 2011 e 2012 a Tecnoparco (e abbiamo provato a fare qualche domanda in tal senso,), i ricavi ammonterebbero complessivamente a 210,2mln di euro, e non ai circa 30mln dichiarati dalla società valbasentana. Visto che Orlandi cessa di essere consigliere in Tecnoparco nel 2002 e vi rientra con Veos dieci anni dopo rinunciando al più importante ruolo in Sorgenia, sa qualcosa di tale ribasso dei prezzi di mercato? Se si può spiegarne la convenienza? Certo nel fiume Basento dove insiste la società, è acclarata una contaminazione da idrocarburi, e Tecnoparco ha sversato direttamente dallo scarico del depuratore di Pantaniello che pure gestisce (come abbiamo riportato in cronaca, ndr), qualcosa che fece partire dal Nucleo Operativo Ecologico dei Carabinieri una notizia di reato in Procura un paio di anni fa. Stando all’Arpab anche la sede a Pisticci Scalo ha mostrato parametri fuorilegge nel 2012 (e abbiamo riportato i contaminanti in falda e le emissioni in varie occasioni, ndr). In diverse altre occasioni ci sono stati superamenti allo scarico ma ovviamente le analisi non contavano perché commissionate da associazioni e liberi cittadini. E chissà se ne sa qualcosa l’altro socio Veos, Bani, visto che dal 2002 è consigliere in Tecnoparco (l’ultima nomina è di aprile 2013, ndr). Bani che segue passo passo Orlandi nelle vecchie iniziative (è stato direttore generale e procuratore speciale in Sorgenia, ndr) e nelle nuove, figura come presidente e consigliere del Cda della Seed, vicepresidente e consigliere della Samandel, amministratore della Geode Group, e allo stesso indirizzo delle consorelle di via Suor Maria Pelletier a Monza fa il consigliere per la Conseed srl, società consortile a responsabilità limitata. O se ne sa qualcosa Ricciuti, altro socio Veos, che il 28 maggio del 2012 veniva nominato consigliere del Cda di Tecnoparco e la settimana successiva vice presidente (l’anno dopo confermato consigliere, ndr).

Consigli petroliferi. Certo Veos vuol fare sul serio col petrolio. Non solo essere in quota nell’impianto che ne digerisce i reflui e sui cui guadagni s’apre un universo indefinibile, ma occuparsi pure di ricerca, prospezione, sviluppo, produzione e commercializzazione di prodotti minerali liquidi, solidi o gassosi in Italia e all’estero. In fondo di buchi se ne faranno tanti. Sembra la fotocopia di un’operazione che Tecnoparco aveva già provato a fare con la Ecosauro Servizi Ambientali srl di cui possedeva il 30%, che doveva trainare la società valbasentana nel “mercato esterno in relazione all’avvio delle attività estrattive della TotalFina”. Resta emblematica nell’inchiesta Total una conversazione tra due soci di un’impresa coinvolta sull’appalto per lo smaltimento e il trattamento dei fanghi petroliferi della multinazionale francese che in questi giorni ha fatto prove di produzione. Uno dei due ricordava all’altro al telefono che per i fanghi Eni “hanno fatto Tecnoparco e Castellano”, e quindi per vincere l’appalto di smaltimento della Total bisognava allearsi con un imprenditore pugliese che al telefono aveva confermato come “Tecnoparco con tutti i giri che deve fare non so come li deve smaltire”. Del resto si capisce che se come smaltire diventa un problema secondario nella fiaba del petrolio lucano, ciò che conta sono i “rapporti di forza” per aggiudicarsi gli appalti, i piccioli. Era stata infatti la stessa inchiesta a evidenziare come Castellano con aria di minaccia aveva avvertito un altro re mida dei rifiuti rinviato a giudizio nel Total Gate che “prima di fare certe cose deve venire a consigli”. Con le nuove prove di produzione chi andrà adesso a Piacenza da “Peppino”?