Il totalitarismo dell’imbecillità e la schiavitù desiderata
Posso discutere all’infinito sulla bontà di uno spicchio d’arancia. Magari sostenendo che è gustoso o amaro, in base alle mie convenienze
Posso vedere oltre e trovare argomenti che riguardano tutta l’arancia. Ho la facoltà, però, di superare i limiti del pensiero e discutere dell’albero e poi magari della terra che ospita quell’aranceto. E ancora di più, posso ragionare e assumere decisioni sul pianeta che accoglie quella terra che custodisce quell’aranceto che mi offre l’arancia da cui mangio uno spicchio che mi fa discutere. Sarebbe la soluzione più coraggiosa, risolvere ogni cosa all’origine, anche la più lontana delle origini, la più profonda delle genesi. E invece niente. Nulla. Tutte le discussioni, i conflitti, le vertenze si sviluppano intorno allo spicchio d’arancia. E’ come il ballo del mattone. Sempre nello stesso posto, nonostante i culi in movimento. “Bisogna salvaguardare il lavoro degli operai, ma anche la salute e l’ambiente”. Disco rotto. Marito ubriaco e botte piena. Com’è possibile produrre bombe e poi evitare che vengano uccisi i bambini? Gli operai di quella fabbrica di ordigni hanno un lavoro che, per alcuni imbecilli, è un diritto. Chiamate ancora diritto quella fatica di otto ore nelle miniere? Andateci voi! Chiamate ancora diritto quella fatica di otto ore alla catena di montaggio? Suvvia, siamo seri. Magari è un dovere, una costrizione, una necessità. Se non lo fai, non mangi! E’ questa la civiltà? Essere costretti a fare un lavoro che non vorresti fare? Siamo nel tempo in cui tutti dicono, “ho un lavoro”. Avere, no fare. Nessuno più “fa un lavoro”, chi è fortunato “ha un lavoro”. Una società sprofondata nella contraddizione più lacerante: possedere la propria schiavitù è un vanto, una condizione desiderabile, uno status symbol. Incredibile! Ecco, ricominciamo a discutere di lavoro. E scopriremo che il problema non è nello spicchio d’arancia, ma nella terra che ospita quell’aranceto. Ricominciamo a discutere di sviluppo e, quindi, di benessere. Scopriremo che il problema non è in quell’azienda che chiude o in quello stabilimento che inquina. Il problema è nella stupidità degli uomini. In quella cosa che gli ottusi o i collusi continuano a chiamare capitalismo, ma che evidentemente è totalitarismo dell’imbecillità. Quel totalitarismo utile a soddisfare l’avidità di pochi con il consenso di molti.