Mare ‘monstrum’

21 maggio 2014 | 22:12
Share0
Mare ‘monstrum’

Il termine latino monstrum deriva dal tema “monere”, avvisare, ammonire. E forse la valutazione della ricettività del Golfo di Taranto e dell’area marina vicino lo scarico della Trisaia di Rotondella, Matera, la stima dell’accumulo selettivo di attività nelle diverse componenti dell’ecosistema interessato negli anni che si trovano nei documenti, a questo servono. Ad ammonirci su quanta radioattività il mare, e noi umani, possiamo sopportare. Terza puntata dell’inchiesta sulla radioattività di Stato. 

L’ambiente “particolarmente favorevole”. Nel 1972 la Guida alla conoscenza dell’Itrec e del programma per il combustibile uranio-torio raccontava che la situazione ambientale della Trisaia era “particolarmente favorevole alla installazione di impianti nucleari”. L’entroterra nella direzione dei venti prevalenti, montuoso e “scarso di popolazione”, e “l‘ambiente marino antistante in grado di smaltire eventuali effluenti con un opportuno posizionamento del terminale della condotta di scarico” erano ideali. L’anno dopo arrivava il “Rapporto di sicurezza dell’impianto”.Lo scarico giornaliero di circa 600 metri cubi di effluenti attivi – scrivevano invece – ha posto il problema della ricettività dell’ambiente in cui detto scarico viene operato”. Così per il posizionamento del terminale s’offrivano due soluzioni. Il fiume Sinni e lo Ionio.Data l”entità dello scarico dunque, e “desiderando anche di ridurre al minimo le perturbazioni all’equilibrio ecologico della zona”, scelsero, per la “ricettività superiore a quella di un suo affluente”, il mare, come se il Sinni non sfociasse da nessuna parte. E sversarono nel fiume come soluzione temporanea sia per i tempi di realizzazione della condotta a mare, sia perché bisognava fare studi sull’ecologia marina. I liquidi provenienti dall’unità di trattamento biologico, scrivevano, autorizzato a tutto il ’72 nel fiume, avveniva dai bacini attraverso una tubazione interrata che convogliava i rifiuti in una canaletta di scolo aperto. Liquidi che, affermavano, “insieme ai rifiuti attivi” affluivano in un pozzetto di raccolta da cui una tubazione in cemento interrata li convogliava nel punto di scarico sul Sinni.

La diffusione. L’anno prima era già stato fatto uno studio che doveva valutare la ricettività del Golfo di Taranto e dell’area marina vicino allo scarico della Trisaia. Si sottolineò con un bel punto esclamativo che il vento aveva praticamente riportato una delle sonde impiegate per capire le correnti, “sulla spiaggia”. Quello che trasportava, in termini di radionuclidi, lo sapevano dal ’69 grazie all’analisi protezionistica della condotta a mare degli effluenti liquidi. La quasi totalità era Trizio, il resto Stronzio89 e 90, Ittrio91, Niobium90, Iodio131, Cesio137, Cerio141 e 144, Kurciatovio103, Promezio147, per un’attività annuale di 450,1Curie (Ci, ndr). Nel ’72 arrivò pure “La diffusione di effluenti radioattivi nel golfo di Taranto”. Spiegavano che “nei dintorni immediati del rilascio la concentrazione sarà ovviamente prossima a quella con cui il radionuclide stesso viene scaricato” e poiché c’erano molte incertezze di calcolo consigliavano di ridurre la capacità di scarico. Ciò significava che almeno per un primo periodo la quantità totale scaricata poteva essere solo 3000/450Ci, circa 7 volte superiore. Un gorgo stazionario poi, faceva presupporre piccoli scambi con le restanti acque del Golfo, e dunque che l’attività rilasciata sarebbe stata trasportata indietro al punto di rilascio. Nel ’93, a distanza di vent’anni dall’analisi protezionistica, e a condotta in mare operativa, nel Rapporto sulla radioattività ambientale scrivevano che la concentrazione dell’attività scaricata era massima nel raggio di 2km dallo scarico.

Tutti al mare. Nel frattempo ogni estate la gente, come solito, se ne andava tranquilla al mare. E mentre bambini, ragazzi e adulti si tuffavano e divertivano, nel ’95 la Commissione interna sul mar Mediterraneo nel Rapporto 34 sintetizzò uno studio sul plutonio 239 e 240 nei sedimenti superficiali e profondi del mar Ionio e del bacino algerino (studiato per poter comparare allo Ionio l’influenza morfologica e i fattori sedimentologici sul trasporto del plutonio dalla costa al mare profondo). Del resto il Golfo di Taranto era un mare chiuso e bisognava capire come si sedimentava il plutonio. La concentrazione del plutonio nella valle di Taranto scrivevano (con canyon che arrivavano sino a 2000m sotto il mare), era sino a 20 volte più elevata rispetto al mare aperto algerino come “conseguenza – scrivevano – di processi produttivi che insistono considerevolmente in un’area chiusa e che vedono l’apporto di fiumi che producono la rimozione del plutonio”. La conformazione del Golfo di Taranto evidenziava che i particolati esportati dai fiumi e i radionuclidi associati erano trasportati nei canyon dove le condizioni idrodinamiche facilitavano la risospensione dei sedimenti. In generale, dicevano, il plutonio decresce andando più in profondità nei canyon (venne riscontrato sino a 15cm sotto i sedimenti a 2000m di profondità). Sotto la linea di costa però, e sino a 30cm nei sedimenti, aveva un range da 90 a 160 Bq/m2 (metro quadro, ndr), e in tutti i casi si trattava di valori ben al di sopra di quelli da deposizione da fallout (81Bq/m2, ndr). Tali valori, osservando la figura che inseriscono nello studio, venivano rilevati sul mare antistante il Sinni e il Basento. Un campione preso a 450m di profondità a circa 15km dalla foce del Sinni registrava valori di plutonio maggiori di 160Bq/m2, un altro campione, prelevato a 150m di profondità a circa 5km dalla foce del Basento presentava valori di plutonio maggiori di 123Bq/m2. Per i due campioni riportavano solo il limite più basso perché le concentrazioni di plutonio, asserivano, erano ancora alte nei sedimenti delle carote prelevate.

Seppellimento alla rinfusa di rifiuti radioattivi . Ma l’acqua è protagonista in questa storia. Nel ’73 fanno indagini idrogeologiche nell’area destinata ai rifiuti solidi a media e bassa attività della Trisaia. In linea generale, dichiarano, tra i principali fattori che giocano un ruolo fondamentale “nella scelta di un’area destinata allo scavo di trincee per il seppellimento alla rinfusa di rifiuti solidi a media e bassa attività”, oltre alla distanza tra superficie freatica e fondo delle trincee, ci sta anche l’entità della riserva idrica sotterranea e il tasso di ravvenamento (frazione della riserva rinnovata annualmente, ndr). “La profondità utile delle trincee – scrivono – considerando uno spessore minimo di sedimenti pari a 0,5m tra il fondo delle trincee e i massimi livelli freatici raggiungibili (a drenaggi artificiali in funzione o meno), risulta di 3m dal piano campagna”. Constatano che la riserva sotterranea, alimentata esclusivamente per infiltrazione delle acque di pioggia, é modesta, dunque moderata è anche la diluizione e dispersione dei radionuclidi, per contro però, “il tasso di ravvenamento è elevato e la diluizione e dispersione dei radionuclidi è ben maggiore di quella corrispondente al volume di acqua della riserva”. Quella che chiamano area destinata ai rifiuti solidi a media e bassa attività destinata allo scavo di trincee per il seppellimento “alla rinfusa” dei rifiuti solidi a media e bassa attività, come virgolettano, s’estende su una superficie di circa 13.300 metri quadri. I rifiuti solidi di medio e basso livello una volta immessi in contenitori in plastica saldati e raccolti in fusti metallici sono trasferiti nella fossa, dove vengono interrati e ricoperti con uno strato impermeabile.

Flussi… Ma all’Itrec si ritrattano 30kg al giorno di combustibile uranio-torio e si producono pure rifiuti solidi ad alta attività e liquidi a media e alta attività. I liquidi finiscono in serbatoi di immagazzinamento con un’attività specifica di 1800 Ci/litro. Qui aspetteranno di essere riprocessati. I solidi invece, spezzoni degli elementi combustibili prodotti alla media di 6,6kg in 48 ore con un’attività gamma di 90.24Ci dovuta a Cromo51 Ferro59 e Cobalto60, sono lasciati cadere in un pozzo dove viene versato bitume o cemento a presa rapida, in modo da conglobarli in un’unica massa. L‘escavazione fin sotto al tetto delle argille delle fosse dicono, ha portato a un intenso drenaggio delle acque sotterranee e al loro parziale convogliamento in direzione delle stesse fosse. E il giorno che venissero a cessare i drenaggi artificiali? Una piccola parte di acque sotterranee contaminate defluiranno verso la subalvea del fiume Sinni specificano, mentre la parte più consistente filtrerà sub-parallelamente al corso del fiume per emergere in forma diffusa sulla scarpata che corre lungo la Statale, e sulle sponde d’una incisione naturale situata 50m a nord della foresteria del Centro. Nel ’83 fanno una campagna radioecologica di fronte al sito della Trisaia antistante il Sinni per capire la distribuzione di Ferro, Cobalto, Cromo, Nichel, Stronzio e altri metalli. E li trovano, distribuiti omogeneamente in superficie e sul fondo del mare (solo Ni e Cu sono più concentrati nello stato superficiale).

…E riflussi storici. La valutazione della radioattività nell’acqua, nel plankton, negli organismi acquatici dei fondali e dei sedimenti, scrivevano in uno studio del ’71 Euratom-Cnen durato 5 anni sul Golfo di Taranto, è necessaria per determinare l’aumento della radioattività nel mare dopo il contatto con i radionuclidi dei rifiuti scaricati dall’impianto Trisaia. Sempre gli stessi transuranici riportati dalla formula di scarico del ’69. L’analisi radiochimica del mare e del plankton scrivono pure, “ci abilita a determinare quantitativamente certi radionuclidi artificiali che in futuro potrebbero presentarsi in larga quantità nei substrati marini come risultato dello scarico radioattivo”. In tutti i campioni di plankton raccolti in varie zone e a differenti profondità, ricordano, è stato notato un considerevole aumento della radioattività beta totale. Possiamo stare sereni? Certo la radioattività beta anche se più penetrante, può essere fermata da sottili strati di materiali (acqua compresa), ma ancora nel 2011, nel rapporto annuale dell’Arpab, si parla di livelli anomali del più tossico Cs137 nei sedimenti marini prelevati in prossimità dello scarico degli effluenti liquidi dell’Itrec.